Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dall’indole molto dolce e affettuosa: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che avevano accolto in casa, fin da quando lei lo aveva trovato da cucciolo su un ramo del loro abete. Così, il gattino seguiva le tre sorelle dappertutto. Mentre andavano a scuola nel villaggio nella valle vicina, quando facevano il bagno nel lago, quando andavano a fare le passeggiate tra le montagne. Là, Rodolfa e Genofrida giocavano a fare le spose, mentre la sorella e il gatto ammiravano insieme il panorama.
Un brutto giorno, però, si presentò alla porta uno strano signore accompagnato da tre ancelle; alla vista di tali genti, il padre sbiancò e la madre, ripresasi dal torpore iniziale, ricacciò le figlie a letto sebbene fossero le due del pomeriggio. Dalla loro cameretta, le tre sorelline sentirono tuoni e rombi provenire dalla cucina, ma ubbidienti rimasero dove era stato ordinato loro di stare per ore, fino a quando la calma tornò a regnare nella loro casetta.
Ma poi, le tre sorelline furono sorprese da ciò che scoprirono: nessuno, non c’era nessuno in cucina o in veranda o in soggiorno quando discesero dalla cameretta. «Mamma? Papà? Dove siete?», continuavano a singhiozzare, ma a testimonianza della loro presenza era rimasto solo il tortino di patate nel forno a legna…
Confuse, le tre sorelline non si persero d’animo e uscirono dalla casetta per dirigersi verso le miniere, a chiedere consiglio alla strega: una strana signora che dormiva nelle miniere di ferro, capace di rispondere a qualsiasi domanda e a profetizzare gli eventi futuri.
Per arrivarci dovettero attraversare un fitto bosco ricolmo di alberi e radici contorte, con cespugli rigogliosi e roveti minacciosi. Rodolfa e Genofrida, con le loro gambe agili e le loro figure snelle, ci passavano facilmente; Ermenegilda invece inciampava e cadeva. Ci misero ore ad attraversare i boschi, ma alla fine unite arrivarono alle miniere oscure. Un intricato sistema di cunicoli stretti e bagnati, nei quali le gocce d’acqua conferivano un rivestimento sonoro alquanto inquietante. Forti della loro compagnia, le tre sorelline però non badarono alle ombre che le minacciavano e, finalmente, dopo un periglioso peregrinaggio per quelle vie scavate nella pietra, trovarono la strega.
Dopo essersi presentate, le tre sorelline si inchinarono e porsero alla donna le uniche monete d’oro che erano riuscite a reperire, una moneta nella mano destra di ciascuna bambina. La strega, allora, si alzò e le osservò. Quindi, un’aura azzurra la pervase e lanciò un urlo profetico: «I vostri genitori sono stati portati via per i loro debiti e le loro cattive intenzioni. Volete salvarli? Cercate un modo per ripagare i loro debiti e quando avrete trovato la cifra, sarà Lei a trovarvi. Ora andate!» e le bambine si ritrovarono fuori, nei boschi.
Ora le tre sorelline volevano capire come salvare i loro genitori, ma non si chiesero mai chi fosse quella Lei citata dalla profetessa.
«Rapiniamo la banca Titania! Siamo piccole, chi mai arresterebbe delle ragazzine? Con tutti quei lingotti potremmo ottenere così tante monete d’oro che non solo salveremo mamma e papà, ma anche potremo comprare un castello intero!», argomentava Rodolfa. «No, andiamo a supplicare il Re! Con il nostro bel visino e gli occhioni impauriti nessuna persona con un cuore pulsante nel petto oserà negarci ciò che pretendiamo!», ribatté Genofrida. Ermenegilda le osservava tutta piena d’ansia con i suoi occhietti marroni, mentre proponeva di cercare aiuto dalla loro Fata Madrina: secondo la leggenda, tutti i bambini ne avevano una a proteggerli. «Naaaah!», risposero le due sorelle in coro e lei da quel momento tacque. Tuttavia, Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda non riuscivano a trovare un punto comune sul da farsi e decisero di separarsi; usarono il patto di sangue per sapere cosa sarebbe successo l’una all’altra nell’immediato futuro: tutti sanno che un fiore intriso del sangue di una persona rivelava la sorte della stessa, giusto? E così le tre si separarono, ognuna andandosene con due fiorellini in tasca, scarlatti del sangue delle altre due sorelle. Ermenegilda rimase sola, i suoni delle campanelle appese ai rami erano la sua sola compagnia; esse rappresentavano il segnale dell’accesso alle gallerie in cui la strega risiedeva, a cui però Ermenegilda non poteva più chiedere aiuto.
Sola e sconsolata partì a sua volta.
A dire il vero, Ermenegilda della loro Fata Madrina non aveva grandi ricordi: le famiglie povere, a parte la benedizione al momento del parto, non avevano diritto a molte visite di quella signora. E di quella fatina, la bambina aveva solo un’impressione, un’immagine impressa nella memoria: dalla culla l’aveva scorta una volta sola. Si trattava di una figura sfavillante in un cappuccio rosa, che sembrava emanare luce propria. Uno sguardo dolce e premuroso, le aveva posto parole affettuose mentre le toccava la fronte con la mano calda e morbida. E il dolce profumo dei garofani proveniva dalla fata, quel sentore dolce e vanillato che Ermenegilda percepiva nei momenti bui. Sì, Ermenegilda non aveva mai più incontrato la sua Fata Madrina ma era sicura della sua esistenza! Inoltre, la bambina conosceva il posto in cui le leggende narravano abitasse la Fata Madrina: al mare!
Era verso il mare che infatti voleva dirigersi!
Purtroppo la strada per il mare era lunga e, arrivata la sera, Ermenegilda era fin troppo lontana sia dalla sua casetta sia dal mare tanto agognato: goffa com’era continuava a cadere sui sentieri nei boschi, sulle radici dei grandi pini e dei bianchi abeti, sui massi piatti e scivolosi del torrente che seguiva a ritroso. E in tutto questo non si era ancora nemmeno allontanata dalla valle! Senza accorgersene, al posto di scendere e raggiungere la pianura era salita e aveva scalato il pendio.
Aveva camminato tanto, fino ad arrivare alla fine della giornata ad un altopiano su cui si stagliava una ricca locanda in roccia. E ora? La locanda era un ottimo posto per passare la notte, ma lei non aveva più danaro! Come fare?
«Ma come puoi anche solo chiedermi di ospitarti se non hai i soldi con cui ripagarmi?», le rispose la locandiera prima di chiuderle la porta in faccia. Sconsolata, Ermenegilda sedette su uno dei gradini di pietra del palazzo ed scoppiò in lacrime, almeno fino a quando una donna gentile non uscì dalla casetta di cristallo a fianco della locanda e le rivolse parole pietose.
«Ma come mai una così brava bambina si mette a piangere tutta sola di tardo pomeriggio? Cosa, non hai i soldi per pagare l’alloggio? Beh, se mi raccogli la legna posso darteli io!»
Ad Ermenegilda non sembrava vero: se avesse raccolto una cesta di legna grossa e fine avrebbe ricevuto cinque monete di bronzo! Felice che la fortuna finalmente le irridesse, smise di piangere e ringraziò la gentile signora.
Piena di energie per la nuova speranza che l’era apparsa, la bambina si guardò attorno e vide una fitta pineta a un centinaio di metri dalla locanda, vicino allo strapiombo roccioso. Veloce e attenta, con la cesta di vimini in mano, raggiunse il bosco e fece incetta di legna secca di pino; tornata dalla vecchina, le porse la pesante cesta e sorrise, nonostante le botte che aveva preso sulle radici degli alberi. Dopo averla ringraziata, prese le monete e si pagò la stanzetta nella locanda a fianco. Stanca e sola com’era, mangiò tantissimo: prima un piatto di stufato di cerbiatto e polenta bianca, poi una bella torta di mirtilli. Soddisfatta e satolla, finalmente le venne sonno. Prima di ritirarsi nella stanza che tanto faticosamente si era guadagnata, volle uscire e cedere alla gentile vecchina un pezzo della fetta di mirtilli che le aveva lasciato da parte ma, al chiaro di luna, notò che oltre alla locanda sull’altopiano non c’era altra costruzione; confusa, Ermenegilda andò a dormire per prepararsi alla lunga camminata che l’attendeva.
Fattasi spiegare per bene le indicazioni per il mare dalla locandiera, Ermenegilda il mattino presto partì e si diresse di buona leva verso il mare, nella direzione giusta, questa volta; felice notò che il gattino selvatico cui aveva dedicato molte attenzioni la seguiva, l’aveva sempre seguita fin da quando aveva lasciato la loro casetta, forse. Non essere più sola durante un viaggio tanto grande la rese immensamente felice, accolse tra le braccia il compagno di avventure e stando attenta a dove metteva i piedi -per non inciampare ancora- arrivò in pianura, lontana dalle montagne: per la prima volta in vita sua era uscita dalla valle!
Ora le bastava solo seguire il torrente cristallino che attraversava le cime rocciose delle montagne e attraverso una bellissima cascata si congiungeva a un laghetto e infine al mare salato e sterminato. Era quasi arrivata, Ermenegilda se lo sentiva! Pure il gattino fremeva e ronfava tra le sue braccia, con le orecchiette morbide che captavano la luce balzante sull’acqua e gli occhi che osservavano il rinfrescante sciabordio del torrente sulle rocce!
Il ruscello li aveva portati davanti a una strettoia di roccia nera.
Ermenegilda notò come il flusso d’acqua improvvisamente si riduceva a un velo che spariva nella fessura di una delle due pareti nere. La bambina, allora, capì che doveva attraversare la gola, ma quando stava per penetrarvi sentì una stranezza: in tasca, uno dei fiorellini scarlatti di sangue stava appassendo! Sconvolta, Ermenegilda si fermò, posò a terra il gattino bianco e nero ed estrasse il fiorellino. Una lacrima le scese lungo la guancia, mentre lo sguardo si posava sui petali del fiore non più scarlatti. Aveva perso il colore rosso! Era successo qualcosa a Rodolfa! Ma cosa? Aveva veramente provato a rapinare la banca ed era stata impiccata? O le avevano mozzato le mani? Spaventata, la bambinella decise di affrettarsi ed entrò nella gola di roccia nera.
Ermenegilda, però, si era sbagliata!
Quella che pensava fosse la gola tra due valli o una strettoia tra due monumenti in pietra nera si era rivelata l’entrata per un autentico labirinto scavato nell’ossidiana! Infatti, davanti a quella che si era rivelata come un’entrata al labirinto non si stagliavano le distese pianeggianti verso il mare ma un’intricata ramificazione di costruzioni e pareti nere, lucide ma rocciose! E quando svoltava, Ermenegilda si trovava sempre davanti ad altri dieci corridoi stretti tra i quali scegliere, oppure in stanzette circolari piccole e opprimenti. Una volta, si era ritrovata in un vicolo cieco e senza accorgersi della parete c’era andata a sbattere con il naso!
Dopo numerose ore di smarrimento e peregrinazioni, con il cielo che iniziava a tingersi di rosa, il gattino iniziò a comportarsi in modo strano: si agitò tanto per scendere dalle braccia della bambina e fischiò nervoso contro un corridoio che svoltava minaccioso alla destra della bambina! Proprio in quel momento dal corridoio maledetto proruppe una terrificante creatura vermiforme! Spaventata dai mille occhi con cui il mostro bramava le sue carni paffute, la bambina si mise a correre con il cuore che le impazzava in petto e il gattino che la seguiva a ruota! Corse e corse ancora, corse tra le molte salette circolari con le pareti lucide che inesorabili le mostravano le fauci del mostro più vicine a lei per ogni secondo che passava. Corse a perdifiato, anche inciampando e rimettendosi a correre, corse dietro gli angoli di molti corridoi mentre il mostro cercava di ghermirla con i tentacoli delle fauci. Solo quando l’uscita dal labirinto fu visibile, anch’essa un’apertura tra due pareti lisce, Ermenegilda poté sorridere anche se sfinita: con un ultimo sprint lei e il gattino superarono l’agognata uscita dal labirinto.
Insieme caddero nel dirupo al di fuori del labirinto nero e impenetrabile. Subirono un volo spaventoso e lungo, ma almeno si erano lasciati il verme dai mille tentacoli ad osservarli impotente da lontano.
Per fortuna, lei e il gattino erano precipitati dentro a una pozza di acqua salmastra: si trattava della congiunzione tra la cascata al di fuori del labirinto e il mare dal quale i pescatori riempivano le grandi reti a strascico e le gabbiette di rame intrecciato poste sul fondo del mare.
Stanca e provata, Ermenegilda nuotò con il gattino sulle spalle fino alla riva e uscì dal laghetto: al concludersi della giornata di cammino e di striscianti paure, finalmente la bambina era giunta alla grande città sul mare, lo aveva capito dalla lieve brezza marina che aleggiava in quel bellissimo posto! Infatti, non appena si inoltrò fuori dal parco ai piedi del monte di roccia nera e dentro alla prima strada battuta, Ermenegilda si ritrovò dentro a un centro urbano sul mare, costruito su canali e ponticelli.
Felice di essere finalmente giunta alla meta agognata, la bambina si diresse verso il centro, costeggiando uno dei canali: tutti sanno che le Fate Madrine vivono al centro delle città, nella parte più antica e al tempo stesso più splendida, vero? Lo sanno tutti, ma proprio tutti!
Infine, dopo un’oretta scarsa di cammino, con i lampioni che venivano accesi da smilzi ometti vestiti di arancione, eccola là: una reggia interamente in marmo bianco e rifiniture d’oro, costruita sulla collina artificiale al centro della città, sulla vista panoramica del bacino marittimo a pochi passi da essa e dalla piazza. Davanti alla reggia era stato costruito un grande pilastro nero, alto più di dieci metri e scolpito in bassorilievo con i segni raffiguranti lingue sconosciute e straordinarie creature del Cielo. La Fata Madrina doveva essere dentro al palazzo, Ermenegilda ne era certa. Ed essendo il cancello delle basse mura di mattoni viola spalancato, la bambinella sgusciò nel giardino della Fata Madrina e, piena di speranza, entrò finalmente nel portone di cristallo verde.
Il gattino miagolò: un grande evento stava per compiersi, lei lo sapeva!
Ma nella reggia niente era come Ermenegilda si era immaginata! Non c’erano ampie sale ricolme di mobili d’avorio e statue di divinità immortali e illuminate dalle grandi finestre che aveva scorto dalla strada, né maestosi arazzi o pregiati tappeti o gli splendidi affreschi raffiguranti intrichi di garofani e roseti, neppure le scalinate e i corridoi che un edificio con così tanti piani e ali lasciava presagire. C’era solo uno spazio buio, come se entrando nel tramonto dentro a quel palazzo avesse varcato la soglia della landa dei morti. Spaventata, Ermenegilda stringeva il gattino al petto con tutte le forze, fino a quando il micio quasi non la graffiò al volto; allora, scusandosi con lui per la propria sbadataggine e il proprio egoismo, lo pose a terra. Ma si tenne vicina a esso: quel posto la spaventava enormemente! Era tutto avvolto nella nebbia! E nella nebbia Ermenegilda poteva scorgere orripilanti figuri, corpi scuri che aleggiavano sopra al pavimento impegnati a fissarla con occhi fiammeggianti!
Ermenegilda urlò, si mise a correre a tentoni nel buio fino a quando non trovò una porta, la aprì e se la chiuse a chiave alle spalle: di certo non avrebbe più messo piede in quel posto maledetto, dove gli spettri infestavano l’aria, dove essi potevano sputarle addosso il loro alito di morte sussurrandole le peggiori profezie e maledizioni!
Sola nella stanza, con il gattino bianco e nero che la osservava muto, Ermenegilda trasalì: nella tasca della gonnella la bambina percepì di nuovo l’essiccarsi di un fiore, l’ultimo fiorellino scarlatto di sangue che poteva essiccarsi! Piena di ansie e desiderosa di conferme, affondò la mano nella tasca e ne estrasse quello che doveva essere l’ultimo fiorellino scarlatto rimasto, ma di esso era rimasto solo un filo marrone e secco con attaccati alcuni foglietti di carta scura e screpolata!
Qualcosa era successo pure a Genofrida! Non poteva più aspettare!
Ironia della sorte: la stanza nella quale si era rifugiata Ermenegilda era una semplice biblioteca di piccole dimensioni, senza altre uscite se non quella da cui era entrata. Per trovare quindi la Fata Madrina e salvare le sue sorelle, la bambina inspirò profondamente e, noncurante del cuore che le batteva forte in petto, si girò verso la porta e la spalancò, affacciandosi verso quella che doveva essere la stanza con la nebbia e le creature inquietanti: nient’altro poteva spaventarla ormai!
Tuttavia, quando Ermenegilda rientrò nel luogo che l’aveva terrorizzata, notò con meraviglia che la nebbia e la tenebra erano scomparse. Al loro posto si trovava un campo di grano, con le spighe che ondeggiavano al vento. In mezzo al campo di grano, sopra a una pedana in granito viola, si stagliava una scalinata a chiocciola che si avviluppava su se stessa fino a incontrare il cielo azzurro che rischiarava la scena. E, sempre sulla pedana e davanti alla scalinata impossibile, era posizionata una porta. Quando Ermenegilda si avvicino alla porta, la sua meraviglia crebbe: la porta era di fine legno chiaro, forse di rovere bianco, ne aveva viste molte giù in paese a casa della sua amica Claretta, e incastonata nella porta si trovava una vetrata verde e rosa. Oltre quella vetrata, Ermenegilda poteva vedere una donna bellissima in abiti petalosi ricamare docile e gentile; tuttavia, oltre la porta, si stagliava la scala a chiocciola verso il cielo e, oltre la scala a chiocciola verso il cielo, Ermenegilda poteva scorgere il campo di grano. Poteva odorare il profumo del frumento, era sicura di essere in mezzo alle piante, in pianura. Con una porta magica davanti a una scalinata impossibile.
La bambina si portò le dita agli occhi e se li stropicciò: forse stava sognando! Ma quando li riaprì, si trovava ancora là, in mezzo al campo di grano. Che stava succedendo?
«Ehi, brava bambina, sono qui!», proruppe improvvisamente una vocina. Lei non capendo da dove potesse provenire si guardò intorno spaesata: non c’era nessuno là con lei, a parte il suo gattino! «Sono qui! In basso, mi vedi? Ecco, brava, sono qui. Sono la chiave che apre la porta per le stanze della Fata Madrina! Se mi acchiapperai potrai accedere al tuo consulto. Prendimi!» e come per magia la chiave d’argento si animò e iniziò a salire la spirale.
Ermenegilda, confusa ma risoluta a catturare la chiave d’argento, salì la pedana di granito viola, superò la porta di rovere bianco per le stanze della Fata Madrina e si slanciò sulla scala a chiocciola che saliva ripida verso il cielo: doveva raggiungere la chiave parlante!
La povera infelice cercava di raggiungerla, ma la chiave era veloce, lei era lenta e incespicava su quei gradini così lisci e inclinati, le sembrava ogni volta di stare per cadere all’indietro, e il corrimano era troppo largo per le sue mani sì paffute ma piccine, non sarebbe riuscita ad afferrarlo se fosse caduta! E così, dopo qualche minuto di rincorsa, Ermenegilda proprio come aveva temuto mancò il gradino successivo e si sbilanciò verso il terreno, rotolando giù per le scale.
Batté la testa e svenne.
«Una così brava bambina non dovrebbe stare qui a farsi male: dovrebbe essere a scuola o a giocare, non credi?»
Una voce gentile e delicata la svegliò, Ermenegilda si trovava in un letto di piume di pavone e oca, con il gattino che dormiva beatamente al suo fianco. Le stava parlando una donna estremamente bella, aveva gli occhi come i pini della valle in cui Ermenegilda era cresciuta, e i lunghi capelli biondi erano intrecciati con mille garofani blu.
«Ma come ci sono arrivata qui, gentile signora?», chiese allora Ermenegilda, non sentendosi ancora pronta a rispondere alla domanda della donna.
«Il tuo gattino. Questo micetto ti si è affezionato moltissimo e devo dire che ha sempre avuto buon gusto! Sai che Rodolfa è stata beccata dalle guardie a rubare tre lingotti alla banca? E Genofrida dopo essere stata cacciata dalla corte e messa in orfanotrofio, per il suo bene intendiamoci, vista la sua posizione, si era messa a fare l’incendiaria! Dopo che l’avevano ospitata con tanto amore e tanta pazienza! Proprio questa mattina. Mentre tu, sbadata sì ma con un gran cuore, hai perseguito la tua causa e quello che credevi giusto nel modo migliore a cui potevi aspirare! Sono veramente colpita, mi hai colpita, Ermenegilda. Questo bel micetto poteva lasciarti ruzzolare giù per le scale, ma invece ha preferito salvarti e prendere la chiave al posto tuo. Lo hai impressionato, e io mando i gatti a controllare tutte le mie protette!»
La donna sorrise, dalla poltrona sulla quale era seduta.
Ermenegilda a quell’ultima informazione guardò stupefatta la donna: era lei la Fata Madrina! E sapeva tutto fin dall’inizio! Certo, un po’ era orgogliosa di come si era complimentata per come aveva trattato il gattino, ma quella donna per quanto gentile sapeva tutto e non aveva fatto nulla! Ed Ermenegilda questo non lo poteva sopportare, non dopo quello che aveva subito in quei due giorni. «Come mai non ha mai fatto nulla? I nostri genitori sono stati portati via, le mie sorelle sono state punite per qualcosa di cui non hanno colpa! Volevamo solo cercare di salvare mamma e papà!»
La Fata Madrina sorrise, anche se il suo sguardo si indurì. «Io non potevo fare nulla. I vostri genitori si erano impoveriti per conto loro, sono stata io a mandare loro le mie ancelle accompagnate da una guardia: vi stavano per vendere per ripagare i debiti! E poi volevo vedere fin dove vi sareste spinte, conoscere la vostra vera natura.» «E qual è la risposta?», chiese subito laconica Ermenegilda.
«Tu sei un capolavoro. Anzi, tieni questi, come ricompensa!»
Ermenegilda cadde in un sonno profondo.
Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori. Questa famigliola era composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dolce: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che era solito appostarsi su uno dei rami del loro abete. Tutti andavano d’amore e d’accordo in quella famiglia, ma un male in verità minacciava di romperla in mille pezzi: la povertà! Quell’anno le trote di cui si nutriva e con le quali sopravviveva la famiglia di pescatori erano molte meno degli anni precedenti e lentamente i debiti avevano invaso le tasche dei due poveri genitori. Loro erano sempre allegri e amorevoli con le loro tre figlie, non volevano interrompere i loro felici pomeriggi e la scuola era importantissima, lo sapevano bene! Così, facevano buon viso a cattivo gioco.
Almeno fino a quando Ermenegilda scese sola dalla cameretta da letto per parlare con la sua mamma e il suo papà.
Girava a piedi scalzi sul ruvido pavimento di pietra della loro bella casetta, con la sua camicetta da notte tutta rossa. Teneva in mano due grandissime corna da renna, di quelle renne grandi come quelle di Babbo Natale, ma solo tutte sfavillanti e ricoperte di perle e pietre preziose; su un corno c’era scritto: “Proprietà di Ermenegilda”, scolpito così a fondo nell’osso e ricoperto da così tante pietre che era ovviamente sua, quella proprietà straordinaria!
Ermenegilda disse solamente «Tenete, ve le regalo. Così restiamo una famiglia felice, no?», li abbracciò e tornò di sopra, a giocare con le sue sorelle: Rodolfa e Genofrida stavano giocando alle mogli e il gattino faceva lo sposo a turno di ciascuna!
E così, le tre sorelline vissero felici e contente; almeno fino a quando a scuola non ci furono gli esami! Ma quella è un’altra storia. Ciao!
Ma che bella! Una favola fantastica e convolgente, complimenti! Buon pomeriggio ☺️
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Grazie mille! Buon pomeriggio a te 🙂
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Piaciuta molto, originale, e simpatico il finale.
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Grazie
La produzione è stata molto originale, mia e del blog
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Davvero bella, 👍. Bravo Tony, 👏!
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Grazie 😁
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Prego, 😀
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L’avrei fatta più lunga mi sembra troppo breve.
La leggo domani
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Ciao, l’ironia non ti manca mai 😆
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Domani leggo
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Grazie
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Ogni promessa è debito
Più corta o falla a puntate
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ma ti è piaciuta?
cmq non credo che le taglio, si perde il ritmo
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Così la gente fa finta di leggerlo.
Non è il mio genere, ma tu scrivi bene
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Non horror, non fiaba
Ma tu cosa leggi? 😆
Io scrivo i racconti per me e per migliorare, poi se qualcuno vuole leggere e commentare ben venga^^
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