Tempo di pace

In un paesino di montagna, Pelaghe, vicino a Rizzios, nel Cadore, un giovane uomo osserva il proprio telefono cellulare. Sono ore che è impegnato a disperarsi, a chiedersi come mai nessuno gli scriva, come mai nessuno pensi a lui, come mai nessuno si ricordi di lui. È da minuti interi fermo, sul letto, dritto appoggiato allo schienale, teso e gonfio di lacrime; non piange solo perché è abituato. Con una mano tiene lo smartphone, nell’altra sfoglia ossessivamente il proprio diario. Un diario scritto a mano, dove riporre la propria desolazione e il proprio bisogno di compagnia, una compagnia che non ha e probabilmente non troverà in un prossimo futuro. Posa il cellulare sul letto, ai piedi, e prende con entrambe le mani quelle pagine ricolme di dolore e solitudine; una lacrima finalmente gli scende.

Fattosi coraggio, butta per terra il diario e afferra il telefono, lo accende e guarda nei suoi contatti: vuole telefonare a qualcuno! Quindi inspira, sospira e gli viene il singhiozzo. Tutto sconquassato da questi singhiozzi violenti e rumorosi, scorre i nomi delle persone che conosce e finalmente sceglie Luca, il suo unico amico fino a qualche tempo prima; prima che smettesse di messaggiargli. Sta fermo qualche secondo, nel frattempo una mosca inizia a ronzargli intorno, solo i singhiozzi testimoniano che egli sia una persona viva, in grado di comunicare. Il telefono squilla, i secondi passano, la telefonata viene respinta, il cellulare torna alla schermata principale. Il dolore gli spegne ogni speranza, perfino il singhiozzo.

Improvvisamente, dopo essere rimasto fermo con la lacrima splendente che gli scivolava addosso, sulla guancia scavata, suona l’allarme del telefono: sono le sedici in punto, si deve affrettare per non perdere l’unico autobus della zona per recarsi ad una seduta di psicoterapia. A lui, non è mai piaciuta la psicologa, lo infastidisce, lo mette a disagio parlare dei propri problemi, lo ha scritto ripetutamente perfino nel diario, ma i suoi genitori lo obbligano; quindi lui ci va.

Il percorso dalla palazzina in cui abita alla fermata è tranquillo, troppo tranquillo. Sente solo i propri passi, le popolazioni di conifere della zona lo circondano, non si vede una casa a vista d’occhio. Prima di trovare un’altra casa, un burrone si presenta nella sua maestosità: decine di metri di salvezza per cuori straziati come il suo. Lui molte volte ci ha pensato, di buttarsi. Mai veramente presa sul serio come soluzione, ma ci ha pensato: infatti, come potrebbe altrimenti uno stupido in sovrappeso come lui trovare la pace dei sensi? Se lo ripete sempre, borbottando tra sé e sé, si trova a ripeterlo anche quando arriva alla fermata dell’autobus dove trova Irene.

Irene siede sulla panchina verde, è bella come un fiore di Narciso, splendente come un torrente colpito dal sole, solare come una gemma sul punto di sbocciare. Siede sulla stessa panchina su cui si deve sedere il povero ragazzo, ma, impacciato, non sa cosa deve fare, non sa se restare in piedi e fare in modo di non compromettere quella visione con la propria orrida figura, non sa se sedere e sudare per stare accanto a una ragazza tanto, semplicemente, donna; lei è donna, una donna bella e splendente e solare, lui invece non si considera nemmeno un uomo.

Irene aspetta come lui, deve prendere un autobus come lui, per andare in un villaggio di montagna come lui, probabilmente aspetterà molto tempo prima di riuscire a ottenere il suo scopo proprio come lui, ma a differenza di lui non sente il bisogno di sentirsi accettata e non teme il confronto: come lo ha visto, gli ha chiesto se volesse sedersi accanto a lei «C’è posto, sai? Che fai in piedi tutto solo?». Ma lui invece non se la sente, suda e ha pure un leggero tic alla mano, che si chiude e apre con scatti irregolari.

Alla fine, però si siede.

Irene emana un profumo di rose fresche, quelle fresche ancora brillanti di rugiada, grandi rubini rossi impreziositi dai piccoli diamanti incastonati su di essi. Ogni tanto Irene guarda il proprio Smartphone, ogni tanto sorride alla natura, gli uccelli che sfrecciano sopra agli alberi, il vento sulle fronde che si porta dietro gli aghetti più marroni, gli animaletti indistinguibili che si spostano sul sottobosco e provocano un simpatico crepitio di foglie secche. Irene non sa che lui la sta fissando con la visione periferica dell’occhio, Irene non sa che lui sta sudando per pensare a cosa dirle e Irene non sa che il cuore di lui sta accelerando sperando che lei gli rivolga un sorriso. Irene sa solo di aspettare l’autobus per ritrovare a Calalzo una delle cose più banali di questo mondo ma che al ragazzo manca: gli amici.

«Ciao, sono… Sono…»

Irene, sentiti questi balbettii, si gira verso quello strano sconosciuto. Lo squadra velocemente, begli occhi scuri e profondi, mascella forte, e si chiede come mai stia balbettando; sorridendo, e toccandogli gentilmente una mano, glielo chiede esplicitamente. Lui non risponde, è troppo nervoso, vede grigio e la testa gli gira.

Deve appoggiarsi alla parete di vetro del loculo in cui è posta la panchina per aspettare i mezzi pubblici. Ma quando rinviene, non solo Irene è sparita, ma in lontananza l’autobus sta andando verso le montagne, verso il tunnel che collega Pelaghe a Rizzios. Finalmente piange.

«Veronica, pronto? Sì, sono io. Mi dispiace, ma non ho potuto prendere l’autobus e quindi non posso venire… Sì, lo so. Sto bene, sì sto bene. Possiamo fare la seduta venerdì prossimo? Sì… Certo, ci sarò. Arrivederci.»

Stanco e sfinito, reduce da un episodio per lui disastroso e umiliante, torna a casa. Non vede nemmeno il burrone presso il quale è solito fermarsi a disperarsi, non cerca nemmeno di riflettere sull’accaduto: sa cosa ha sbagliato, una volta a casa lo scrive sul diario, lo evidenzia sul diario, lo trascrive su un foglio e se lo appende alla parete di fronte al letto della propria camera. Un episodio tragico, un episodio, che lo ha mandato in crisi.

Tre giorni dopo, ad aprirgli la porta c’è Veronica, una donna di mezza età dal sorriso gioviale e dalle maniere rassicuranti. Con un sorriso largo e un gesto teatrale, spalanca l’ingresso al proprio studio e lo invita a sedersi.

«Buongiorno, carissimo! Come stai oggi?»

Il ragazzo, leggermente rassicurato dalle attenzioni ricevute, accenna un sorriso anche se i suoi occhi testimoniano l’enorme insicurezza che lo contraddistingue. «Bene, grazie. Mai stato… Meglio.» Lentamente, il giovane uomo segue la donna e si siede su una grande poltrona verde, posta a pochi centimetri dalla scrivania dietro alla quale prende posto su un’altra spaziosa poltrona la psicologa Veronica.

«Allora, carissimo, come hai passato questo mese?» Lo sta guardando dritto negli occhi; serena ma pur sempre diretta nelle parole e nelle azioni.

«Sì, certo. Bene, ho studiato molto sai? Ho anche preso dei sei, finalmente… Posso avere una caramella?»

«Su, non dimenarti e cerca di stare fermo. La caramella te la do se collabori, non puoi svicolare la tua attenzione non appena trovi qualcosa che ti mette in difficoltà! Come mai non sei venuto, martedì?»

Il ragazzo suda freddo: non sa se rivelare l’accaduto, la sua situazione in tutta la solitudine che la caratterizza, o tacere e inventare una scusa al momento; propende per la seconda, ma la giornata di martedì era stata troppo sfiancante, deve sfogarsi e lo fa.

«No nulla è che… Mi sento, mi sento solo. Terribilmente solo. Sento di aver perso i legami con le persone che mi circondano. Nessuno mi vuole. Nessuno mi cerca. Passo ore al computer ma non ho notifiche né su Facebook né su Instagram né su Twitter! Su Telegram e Whatsapp non arrivano messaggi, i soli che mi arrivano sono dei miei genitori per ricordarmi di stendere la biancheria, tirare dentro il bidone dell’umido e preparare la tavola! È… È come se vivessi in una grande bolla e non riuscissi a farla scoppiare! Io mi sento morire dentro, non voglio questa vita ma è la vita che mi sta dando questo! E… Posso avere una caramella?»

Veronica lo osserva attentamente, mentre chiude ripetutamente le dita della mano come se provasse a strangolare il dolore che lo strozza. Lei resta immobile, con i gomiti sul tavolo e le mani congiunte davanti agli occhi; è lui che si muove, finalmente, è lui che urla il suo disagio. Allora lei acconsente a fargli prendere una caramella dal vasetto di porcellana sul lato destro della superficie lignea.

«E perché non chiami mai i tuoi amici?», chiede allora con prudenza.

«Ma quali amici? Nessuno mi cerca, nessuno mi vuole! Prima ho chiamato Luca e lui… E lui… E lui ha riattaccato! Mi ha spento il telefono in faccia! Io… Non ce la faccio più. So che è tutta colpa di questo corpo, grasso e deforme. I miei non vogliono iscrivermi in palestra, so che se ci andassi e diventassi figo, tutto si risolverebbe! Sì, è questo il problema: la gente vuole stare con altra gente bella e sicura di sé, non con quelli come me.»

«E perché allora non ti fai nuovi amici? Cosa hai paura quando devi parlare con qualcuno che non conosci? Che ti giudichi? Che ti rifiuti?»

Il ragazzo sospira e si affloscia sulla sedia: «Che mi rifiutino e si prendano gioco di me.»

Finita la seduta, arrivato finalmente alla fermata tra Rizzios e Pelaghe, scende dall’autobus. Sorride, dalla psicologa si è finalmente aperto, le ha parlato come mai aveva fatto prima, le ha esposto le proprie insicurezze, come passa ore allo specchio a sollevare la pancia gonfia e disgustandosi di essa, come non parli mai con nessuno che non sia della propria famiglia. Ora, per le prossime tre settimane ha un compito: parlare con la gente che incontra per strada, al panificio, a scuola, in piscina.

Così, inizia a uscire, cercare nuove conoscenze, trascinarsi a scoprire nuovi posti. Si sente sempre stupido, brutto, grasso, rivoltante. Ma vede anche qualcos’altro oltre ai propri disastri: infatti, ormai non si ferma più a osservare il burrone vicino a casa, ma solo i tramonti delle sere che torna dal nuoto. Si sente meglio, meno pesante.

E quando, un giorno, alla stessa fermata del bus di qualche settimana prima, incontra di nuovo Irene, sempre sorridente mentre aspetta il proprio autobus, lui la saluta e prima che lei possa dire o fare qualsiasi cosa, lui forzatamente sorride timido e arrossato: «Ciao… Come, come ti chiami? Io sono… Io sono Leonardo…»

Fan Fiction Pokémon: La cattura

Il vento era gelido e ci devastava.
Sapevo che avrei dovuto procurarmi una sciarpa, come mi aveva suggerito Lucinda: infatti, a causa del mio orgoglio mi ero ritrovata nel rigido clima autunnale coperta solo da una maglietta a maniche lunghe, una corta salopette e candide calze pesanti e con il mio bellissimo cappellino bianco che rischiava di volare via, ghermito dal vento.
Solo i miei cuccioloni mi davano conforto.
Zannabianca zampettava felice al mio fianco, con i suoi occhi rossi che scrutavano i verdeggianti giardinetti di Evopoli. Ogni tanto si avvicinava alle panchine e, anche se lo rimproveravo sorridendo, segnava il suo passaggio marcando il territorio. E mi guardava soddisfatto, per poi venire da me a farsi accarezzare il lungo mantello nero di pelo arruffato che aveva sulla schiena.
Psyco, invece, planava seguendo il soffio delle correnti autunnali. Le sue belle piume marroni erano aperte proprio per farsi cullare dal vento in salita, per poi chiuderle per scendere in picchiata, con la sua cresta gialla a forma di V che si abbassava buffa. Adorava volare in quel modo, sfruttando il vento per compiere la minima fatica e riuscire a guardarmi sempre. Poi, specialmente quella notte, ci anticipava e poi si posava sui tetti scuri per aspettarci.
Oltre a loro e alle stelle splendenti, a tenermi compagnia c’era anche la mia bellissima dragonessa Melodia dal piumaggio azzurro, che mi teneva stretta tra le sue soffici ali bianche e morbide mentre mi rapiva con le sue melodie che si confondevano con il respiro della regione.
Tutto era perfetto.

Erano le undici, ormai.
Mi ero svegliata alle dieci, ma un quarto d’ora era passato per mettere nella mia borsa infinitamente capiente i picchetti della tenda e fissare il resto ammassato sulla groppa della mia fantastica Melodia. Il tempo rimanente era trascorso nel tragitto dal sentiero roccioso alla città di Evopoli. Giunti là, avevamo rallentato il ritmo per riposarci un attimino su una delle panchine e per osservare l’andirivieni incessante delle onde dei laghetti, sconquassati dalle masse aeree.
Ormai avevo attraversato i verdeggianti giardini di Evopoli, oltrepassato una monolitica statua e percorso il viale principale costeggiato da stupende casette dal tetto scuro e dal centro Pokémon a sinistra e dal grande edificio del Team Galassia a destra, reso quasi nero e minaccioso dalla notte.
Riuscivo a vedere i grandi laghi e il molo. Non mancava molto al percorso 205 in mezzo al quale c’era il Bosco Evopoli. E in mezzo alla foresta la villa che mi interessava.
Melodia mi fece scendere a terra e subito Zannabianca e Psyco ci raggiunsero. Eravamo sul molo e vedevamo uno sfondo scuro che ci sovrastava. Al nostro passaggio le assi scricchiolavano e la brezza ci inondava. Ogni tanto sentivamo anche i pescioloni rossi che balzavano in superficie. Era bello.
E finalmente arrivammo nel bosco.

Già era notte. Già faceva freddo. Già eravamo soli. E quel bosco faceva venire i brividi.
Sentivo i fruscii. Le foglie che frusciavano. La foresta che respirava e mi chiamava a sé. La nebbia che avvolgeva ogni cosa nel mistero. Gli occhi che mi scrutavano. Il vento assassino che mi pugnalava. I monolitici alberi neri. I rami dalle grandi dita affusolate. La vastità del buio che ghermisce la vita.
Il Bosco Evopoli era misterioso di giorno e mortifero di notte.
Finalmente, Zannabianca iniziò ad abbaiare, indicando una giovane pineta, dietro alla quale si nascondeva il titanico edificio: l’Antico Chateau.
Essa era composta da pini ancora abbastanza sottili, data l’età. Ma erano cresciuti in modo irregolare e formavano un enorme ostacolo nel raggiungere la villa.
Ero disperata. Non potevo proseguire, ma ero troppo spaventata da quel bosco per tornare indietro. Ogni cosa era immobile, ma sembrava scossa da un respiro regolare. Anche i miei cuccioloni erano inquieti. Cercai di togliere di mezzo quegli arbusti, spingendo, tirando, imprecando, piangendo. Ma niente: non si muovevano.
Melodia mi accolse tra le sue calde ali di cotone, mentre Zannabianca veniva a leccarmi la mano. Solo Psyco rimaneva lontano da me, a fissare l’edificio protetto da quella odiata palizzata naturale. E lo guardava, credo, molto intensamente. Troppo intensamente. Forse sentiva qualcosa. Forse sentiva qualcosa, o qualcuno. Forse eravamo in pericolo… o magari già condannati. Forse…
Il mio pensiero venne interrotto da una canzoncina che mi fece pensare ai grandi Monte Scodella e Monte Argento, alle brezze marine miste al profumo di fiori, alla polvere delle Rovine d’Alfa ispezionate grazie alla mia arguzia, alle concitate gare di cattura dei coleotteri, agli incontri con le leggende raccontatemi sin da bambina: il mio Pokégear, donatomi da mia mamma, stava suonando, segnalandomi una chiamata in arrivo.
Sollevata, guardai il numero e risposi.
«Lucinda! Ciao!», esultai, mentre sollevata accarezzavo le celesti piume di Melodia.
«Cetra! Come stai?», ribatté l’amica.
«Lucy…», sospirai, mentre accarezzavo la mia nera iena.
«Stai bene? Mi sembri tesa»
«Sì, certo che sto bene», le risposi leggermente spiazzata e leggermente in imbarazzo per la domanda. Psyco continuava a fissare l’oscuro edificio.
«Allora», disse lei cambiando bruscamente argomento, «Lo hai catturato?»
«A dire il vero ancora no. E ho anche un piccolo problema»
«Cetra!», mi urlò nell’orecchio la ragazza, «Ma sei venuta da Johto proprio per lui!»
Confortata da Melodia e Zannabianca, scoppiai in una risata mezza isterica e per metà divertita. «Lo so! È che davanti al palazzo ci sono diversi alberi che impediscono il passaggio!»
Allora fu Lucinda a scoppiare a ridere. «Ma Zannabianca? E Psyco e Melodia? Non ti possono aiutare?»
«No. È un bosco misterioso e un po’ inquietante, Lucinda. Non mi fido a fare usare le loro abilità. Certo che se Widow mi ascoltasse, potrei tranquillamente usare le sue enormi lame»
A quelle parole, Zannabianca uggiolò e mi leccò la mano.
«E fatti ascoltare! Ora vado, ciao!» e mi chiuse il Pokégear in faccia.

Stanca scesi dalla mia bella dragonessa e rovistai nella mia borsetta, finché non trovai una Pokéball. La tirai fuori e la aprii.
Da essa, in un lampo che illuminò per un attimo il bosco a giorno, uscì una meravigliosa e imponente mantide del colore dello smeraldo con ali color crema e due enormi sciabole al posto delle zampe anteriori. Mi guardò torva.
«Widow! Smettila!», la rimproverai, «Dovresti aiutarmi, non fare così!»
Miracolosamente, dopo quella frustrazione racchiusa nelle mia parole, mi ascoltò.
«Taglia questi alberi, per favore»
E lei, dopo avere spostato Psyco, ci spianò la strada.

Finalmente, entrammo.

Tutto era nero per le tenebre fitte che avvolgevano quel posto sinistro.
All’inizio fu merito del mio intelligentissimo Psyco che non inciampai su una mattonella crepata: lui con la sua vista notturna mi salvò dalla caduta sostenendomi con le sue ali enormi. Quindi decisi di usare la torcia.
Con il flebile cerchio di luce, notai le mattonelle corrotte dal tempo. Inoltre, capii subito che quell’edificio era in disuso da parecchi decenni: un intenso odore di muffa impregnava quel fetido luogo, la polvere riempiva tutto il raggio della flebile luce e dal soffitto pendevano lunghe ragnatele.
Iniziammo ad avanzare, fino a quando non ci ritrovammo di fronte a un bivio: o salire le scale di legno scricchiolanti o proseguire nell’enorme stanza davanti a noi.
Scelsi di salire.
Zannabianca iniziò ad annusare il posto e ogni tanto starnutiva.
Melodia mi si strusciava addosso, intimorita da quelle tenebre.
Widow era arrabbiata come suo solito. Fu felice di tornare nella sua sfera a riposarsi.
Psyco fissava preoccupante un punto buio. Senza emettere suono.

Finite le scale mi ritrovai in un corridoio, scuro e tenebroso e lungo e stretto.
Spostai la torcia a destra e a sinistra e vidi una stanza, forse quella che conteneva Rotom. Feci per entrare, ma Psyco, vedendo qualcuno, mi bloccò. Solo quando si spostò dal passaggio, essendosi convinto che non sarei entrata in quella sala, urlai: avevo visto una bambina con un fiocchetto rosso a tenerle i capelli e un vestitino giallo che mi stava fissando.
Mentre si avvicinava nel raggio della mia debole torcia mi accorsi che era completamente ricoperta di sangue. I suoi occhi erano buchi vuoti, era tutta impiastricciata in un liquido denso e scuro e quando mi parlò dalla sua bocca uscirono un alito putrefatto e decine di piccoli vermetti.
Zannabianca scappò via abbaiando.
Non potei disperarmi per l’abbandono del mio primo cucciolone che fui ancora più terrorizzata: la cadaverica bambina mi esalò di fuggire, che ero ancora in tempo. E scomparve.
Non sapevo cosa fare. Mi portai le mani agli occhi per pensare. Non sapevo cosa fare! Dovevo fuggire o restare? Farmi coraggio o correre via? Non lo sapevo.
Furono gli avvenimenti a decidere per me: infatti, avevo dato la mia torcia a Melodia. Ma senza che me ne accorgessi ero rimasta sola. E al buio.
Decisi di proseguire.

La puzza era terribile. Le pareti del corridoio erano luride e ogni tanto andavo a sbattere contro dei vasi di piante secche e morte. Inoltre, le piastrelle erano danneggiate o assenti in molti, troppi punti e cadevo molto spesso. E sentivo qualcosa respirare, come se ci fosse qualcuno in quel terribile edificio. Non so perché non sono tornata indietro quando avrei potuto. So solo che ne ho pagato le terribili conseguenze.

Finalmente, le mie dita, sempre attaccate al muro, trovarono un buco: ero arrivata alla stanza. Feci per girarmi, ma inciampai su uno di quei vasi e caddi sulle ginocchia. Febbricitante e determinata, iniziai a trascinarmi sui gomiti, iniziando ad avere dei conati a causa della putrefazione che regnava in quel posto.
Ero quasi arrivata! Vedevo un’enorme figura davanti a me! Sentivo una presenza! Era lui!
Ero felice!
O almeno fino a quando non squillò il mio Pokégear: era arrivato un messaggio.
Finalmente, mi alzai e scossi il televisore. Poi lessi il messaggino e urlai ancora, indietreggiando mentre la creatura usciva dal televisore.
Il messaggino diceva:
“Cetra! Mi dispiace dirtelo ora, con tutta la strada che hai fatto, ma ho parlato con Ash. Lo ha già catturato lui il Rotom che abita nel televisore dell’Antico Chateu. Scusa.”


Anche questa mattina Lucinda è passata a salutarmi.
Si è seduta su una delle sedie pregiate di candida seta e di lavorato acero della sala da pranzo. Ha guardato il vuoto mentre mi riferiva la notizia.
«Oggi sono tornata da casa tua»
Nervosa, si portò una ciocca dei suoi capelli con i riflessi blu dietro all’orecchio.
«Sono tornata da Borgo Foglianova. Bel posto, molto tranquillo», sorrise triste. «Proprio un luogo ameno, situato in una radura in mezzo ai boschi. E anche casa tua è bella, con il tetto azzurro come il cielo. Proprio carina»
Sospirò.
«Ho dato in cura a tua mamma i tuoi cuccioloni, come avresti voluto. Le ho detto quello che è successo. Le ho detto che mi sento in colpa. Sono stata io a suggerirtelo. Non pensavo che questo posto fosse veramente infestato, di notte. Mi dispiace veramente tanto…»
Fece per aggiungere una cosa, ma suonò il suo PokéKron e lei dovette rispondere.
«Scusami, ma devo andare. Domani torno, te lo prometto!»
E corse via, dopo aver salutato la stanza, incerta.
L’ho vista andare via, l’ho seguita fino al portone, ho ricambiato il suo saluto, ringraziandola di avere riportato Melodia, Zannabianca, Psyco e Widow a casa, assieme ai miei pochi averi.
E sono tornata dentro, con la bambina che aveva tentato di avvisarmi e l’anziano maggiordomo.
La mia nuova famiglia.
Per l’eternità.

Il mostro Eccolo