«Quindi questo abito mi permetterà di confondere il mio corpo tra quegli altri della gente?»
«Beh, è un vestito, sì. Con la maschera e il fondotinta passerai inosservata. Queste in allegato sono le planimetrie della magione a inizio secolo, se c’è un caveau deve essere ai piani inferiori. Maa… Tutto questo per un fossile?»
«Sempre. La mia sorella non è morta, sta solo dormendo in un sonno di roccia e io la sveglierò!»
«Ok, buona fortuna. Harleene arriverà a mezzanotte, come d’accordo. Ricordati di prendere anche i gioielli esposti, a noi piacciono quelli! Buona fortuna!»
«Mi conosci, non ho bisogno di fortuna in mezzo ai tuoi simili. Grazie, invece.»
Era un’afosa serata di Giugno nella Magione Frankhlyn, una delle ville più antiche di tutta la metropoli. Una grande festa in maschera era stata proclamata dall’ultimo scapolo d’oro dell’importante dinastia e tutte le persone più in vista erano accorse per la celebrazione.
Nessuno avrebbe fatto caso a lei, come donna. Tutti si sarebbero soffermati sulla maschera da Morte Rossa, i più depravati sulle mammelle abbondanti; nessuno avrebbe riconosciuto la sua voce, la sua pelle, la sua natura. La maschera era veneziana, rubata per lei da un marinaio incantato; coprendole il volto fino alle labbra carnose e gli occhi gialli con un velo di pizzo, quella maschera era il volto tumefatto di un appestato, decorato con fibre d’oro e lunghe penne rosse; la lunga chioma fulva era lasciata libera di frusciare sulle spalle nude, lungo il costato.
Per quell’occasione aveva indossato un abito regalatole dalla sua amica, l’umana dalle nove vite. Uno splendido abito da ballo scarlatto aderente lungo il busto e le esili braccia e che esplodeva lungo i fianchi in un’ampia gonna a campana a pois rossi, con una generosa apertura in mezzo al seno che riusciva a malapena a contenere il decolleté generoso: quella sera, sarebbe stata la dea di quelle bestiole a sangue caldo.
Pur non piacendole l’idea di nascondere con il trucco la propria pelle, giudicato anormale da quelle creature rosee, e di indossare decoramenti tanto insulsi, non aveva avuto dubbi: il richiamo di quella povera sorella indifesa, esposta al pubblico ludibrio, era troppo disperato per non accoglierlo.
Come lo aveva percepito, era accorsa a tendere la sua trappola su tutte le prede necessarie al completamento del piano. E tutto era andato come previsto.
La donna, nascosta la propria identità dalla grande maschera, sporse la testa all’infuori della limousine e con una cascata di onde rosse ne uscì dalla portiera aperta. Squadrò l’usciere e si voltò verso la limousine, aspettando che il suo accompagnatore la raggiungesse.
Sapeva che doveva aspettare: lo aveva scelto anziano, anziano e stupido, anziano e senza nessuno che lo potesse salvare. Lo aveva scelto perché quell’uomo anziano risultava tra gli invitati al ballo in maschera, lo aveva scelto perché stanco com’era dalla vita, aveva resistito poco all’odore della donna; era bastato un saluto da parte di lei e quell’uomo, che aveva creato la propria fortuna dal nulla con orgoglio e sagacia, aveva rinnegato la propria umanità diventando il suo burattino.
Ora, lentamente, quello stupido uomo stava scendendo dalla sua limousine con l’invito in mano, andando incontro inconsapevole alla morte. La Morte Rossa sorrise trionfante mentre lo raggiungeva a metà strada.
La Morte Rossa si fermò in mezzo al viale a farsi ammirare, con tutte le altre persone venivano rapite nei sensi dal dolce profumo che si levava dalla pelle di lei. Poi riprese a camminare, sempre tenendo a braccetto il suo anziano accompagnatore, lungo la fastosa scalinata marmorea nella calca di ricchi snob.
L’aria era frizzante, per la Morte Rossa. Sotto la maschera, la donna poteva sentire come le piante del parco percepissero la sua presenza, sentiva la terra respirare di un lento e lungo pulsare mentre le radici le si avvicinavano e le fronde frusciavano sussurrando il suo nome. Quello che circondava la grande villa era uno dei giardini con gli alberi più antichi, faggi e querce perlopiù; ma le siepi e gli svariati tipi di fiori abbondavano in quel piccolo paradiso dei giardinieri. Per lei invece era la morte della natura, una ragione in più per uccidere quel sacco di carne: tutte quelle creature erano ostacolate nella loro crescita, subendo amputazioni e sfoltimento del loro essenziale manto verde!
Avrebbe salvato pure loro, un giorno. Ma non quel giorno: la donna scelse di non compromettere la missione e arrivata al grande portone d’ingresso, si guardò attorno soddisfatta rimirando le squisite fattezze della hall: alla fine, il primo dei suoi sandali vertiginosi fece contatto con il mosaico dell’atrio, era dentro.
Lei e il vecchio uomo assieme ad altri invitati arrivati più o meno come loro furono guidati nella grande sala da ballo, agghindata con i tendaggi più sfarzosi. Un’orchestra stava eseguendo una melodia a un lato della stanza, dall’altra erano situati i camerieri con i tavoli del buffet; al centro c’era la pista da ballo per le coppie, sotto a uno splendido candelabro di cristallo.
Come la donna dalla maschera mortifera osservò il mondo lussuoso di anziani attorno a lei, notò che il costume che le aveva dato l’amica di carne era quanto mai azzeccato: chiunque era abbindato a festa, nascondendo il viso dietro a una maschera. Uccelli, animali di vario tipo, semplici mascherine che coprivano gli occhi, complicati copricapi legati sotto al mento, imitazioni di personaggi e oggetti della cultura popolare. Gli uomini indossavano le maschere come unico ornamento fantasioso sopra ai frac e agli abiti da sera, ma le donne invece si erano sbizzarrite nella scelta di quale meraviglia indossare: non solo maschere elaborate nei dettagli e nei materiali, ma anche un tripudio di abiti da sera e gioielli!
Un invitato in particolare attirò l’attenzione della Morte Rossa. Era un prestante topino di campagna, con il corpo più strabiliante che la donna avesse notato quella sera.
Abbandonò il vecchio, lasciandolo al suo destino: massimo trenta minuti, il veleno avrebbe fatto effetto, lasciandolo in una pozza di carne liquefatta e sangue ribollito sul pavimento.
Era tempo di divertirsi prima di pensare all’ospite: era a una festa, e di sicuro il cavaliere a cui si era interessata era un bello che con lei avrebbe ballato.
Con incedere lento e sensuale, attenta a mostrare ogni curva umana che il suo corpo anormale era riuscito a mantenere, si avvicinò all’uomo. L’essere fatale indossava una maschera che mostrava solo le labbra carnose e il mento, lui invece una maschera di stoffa argentea molto sottile, ampliata nell’immagine del topo con il trucco. Erano entrambi molto affascinanti. Lui aveva gli occhi azzurri e uno sguardo -da quel poco che si poteva vedere- da felino, abbellito da un mento forte e una folta chioma scura di capelli lisci: altro che topo, quell’uomo era un vero leone!
«Mi concedi questo ballo, mio bel topino?», fece lei offrendogli la mano. Lui accettò senza nemmeno pensarci.
Fi in quel momento, quando lui si disse interessato, che la Morte Rossa si diresse al centro della pista, dove lo aspettò in mezzo alle altre coppie danzanti.
Silente e sinuosa, si stagliava nella folla come un albero centenario in un campo di fiori selvatici. Vertiginosi vortici di gonne, frac e ornamenti si muovevano attorno a lei, come foglie sospinte nel vento intorno alla betulla frusciante. Lei stava ferma, dolce nella fragranza ma altera nell’aspetto, in attesa del suo leonesco cavaliere.
Quando i due presero a danzare il loro tango, divennero il sole della galassia di ospiti che si fermarono ad osservarli, accerchiandoli con i loro sguardi rapiti.
Lei era alta e l’abito rosso mostrava le lunghe gambe dalla gonna e le mammelle prosperose davanti; ma lui era molto più alto di lei, la dominava con i gelidi occhi azzurri, rapito dall’odore che proveniva dal caldo corpo femminile. Un tango. Uno dei balli più sensuali e intimi, in cui entrambi mostrarono la forza della passione danzando, lei con un gioco di gambe spettacolare e una passione senza eguali, lui stringendole i fianchi e scuotendole la schiena con una forza che tutta la prendeva, stringendola a sé in un abbraccio di passione. Una coppia di fuoco, con la lunga cascata di ricchi che si muoveva senza sosta come un grande serpente che inghiottiva le menti di tutti quelli presenti, ma senza fretta: nessuno poteva staccare gli occhi da lei.
Era la loro dea.
E quando il tango terminò, i due danzatori restarono avvinghiati in un abbraccio appassionato, sotto agli occhi ammaliati dei presenti. Era calda quella serata, in quella stanza il calore animale era condensato in grandi gocce di sudore e passione sul volto nascosto dell’uomo. Lei sorrideva, compiaciuta della reazione che scatenava in quelle stupide bestiole.
Mentre silenziosa faceva scendere la mano di rosso guantata dalle larghe spalle lungo il fianco scolpito fino all’inguine dell’uomo, lui provò a baciarla. Lei rise. E si distolse: «No, Bruce, non sei tu la preda che questa femme fatale desidera. Vai, ti libero dal giogo!»
Lo cacciò via, a cuccia: era il momento di agire. Disperato, l’uomo si ritirò a fumare in giardino con un’espressione disperata sul volto mentre lei si disperdeva nella folla; la calca perse interesse in lei e tornò a dialogare o a danzare come prima che ella entrasse nella pista da ballo.
La Morte Rossa si trovava a quella festa per un uomo, il proprietario della magione, il rapitore di sua sorella dormiente nel sonno di roccia. E fu da lui che quindi andò, con una coppa di champagne in mano. Corretto, ovviamente.
«Buonasera, mio buon ospite.», ella sussurrò offrendogli un calice di champagne, «Una festa superba!»
Dopo un saluto formale alla misteriosa invitata, John Frankhlyn osservò prima la maschera di grandi piaghe e tormenti, poi abbassò lo sguardo sui grandi seni quasi scoperti, deglutì, sorrise e accettò il bicchiere. Rotto il ghiaccio e rinvigorito dal dolce profumo di lei, la ringraziò e rinnovò il saluto, questa volta sorridendo e stringendola in un abbraccio affettuoso e sentito. E alla fine del loro vicendevole benvenuto, l’ospitante bevve un sorso dello champagne. In qualche secondo, gli occhi di un marrone scuro dell’uomo si tinsero di verde, un verde clorofilla. La Morte Rossa lo osservò perdersi da sotto la maschera.
Prima che qualche personalità loquace o un uomo di servizio la interrompessero, la Morte Rossa prese a braccetto l’uomo e si lasciò guidare attraverso la villa, uscendo dalla sala da ballo: John Frankhlyn, dal momento stesso che gli occhi gli si furono tinti di verde, conosceva benissimo le intenzioni della propria dama e non le avrebbe tradite per nulla al mondo.
Soli e scaltri, i due iniziarono a dirigersi verso i piani inferiori, verso il caveau della vittima, verso la vera ragione dell’apparizione della creatura antropomorfa.
I due stretti in un abbraccio inscindibile camminavano nel buio, con la poca luce lunare che faticava a penetrare gli alti e frondosi alberi antichi del parco che circondava la villa.
Si muovevano veloci tra ritratti di famiglia e tendaggi scuri, calpestando raffinati tappeti siberiani sotto alle volte a crociera dei corridoi e dei saloni che attraversavano; ogni tanto, la donna si fermava ad osservare le stanze che attraversavano. Inorridiva. Erano tutte adornate con raffinate raffigurazioni floreali alle pareti e mobili di alto pregio in castagno placcati in argento. Nessuna pianta, nemmeno in vasetti. Quella villa era la morte della natura, la vittoria dell’arroganza sulla terra.
E poi, dopo diversi minuti, accadde.
Si trovarono di fronte a uno specchio a figura intera. Superficie di platino lavorato, incorniciato da ottone e pietre preziose, smeraldi e zaffiri probabilmente. Dalla lavorazione sembrava essere antico, modificato di recente. Lei, infine, si tolse anche la maschera e quel raccapricciante abito rosso rimanendo con i piedi scalzi e un tanga a coprire ciò che era stato un tempo il suo corpo mortale, prima dell’incidente in laboratorio.
Si osservò per vedere quanto del suo corpo umano fosse rimasto immutato.
Questa donna dalla pelle anormale, ora ancora coperta da un pesante fondotinta rosaceo, appariva estranea alla natura di femmina umana. La sua bellezza era ancora maggiore, trascendentale. La figura era alta e formosa, con una forma a doppio calice: larghe spalle e un seno abbondante, una vita stretta e un bacino abbondante, ma le gambe e le braccia erano esili come se fossero le radici e i rami di un albero.
Sembrava che un’edera avesse avvolto la donna e attraverso i legami l’avesse sfigurata stringendola in una stretta mortale; o che non fosse più umana ma una betulla antropomorfa. Era troppo magra in alcuni punti, troppo abbondante in altri; come se una pianta cercasse di apparire simile alle prede che tanto desidera!
Il viso una volta rotondo e pieno, era diventato oblungo e dalle guance scavate, e le labbra una volta piccole si erano ingrossate diventando gravide di veleni: se qualcuno l’avesse baciata e lei avesse desiderato avvelenarlo, avrebbe potuto uccidere la vittima in pochi secondi.
Ma si era fatto tardi, l’ora concordata si avvicinava, e la fu Morte Rossa, ora se stessa, riprese a braccetto la sua vittima ammaliata, in una stretta per le deboli braccia dell’uomo quasi lacerante e, trovate le scale, scesero al piano inferiore dove alla fine del cammino si ritrovarono davanti a una grande porta blindata di metallo lucidissimo.
«Apri. Ah, tesoro, mi sai dire che ore sono?», chiese lei rivolgendo lo sguardo ai piani superiore, verso il soffitto.
L’uomo, in una sorta di trance, prima aprì la porta blindata del caveau, quindi le avvicinò il polso destro su cui portava un Rolex. Erano le undici abbondanti, quasi la mezza. Soddisfatta, la donna dai selvaggi capelli rossi gli si avvicinò e squadrandolo come un cobra con il topo lo baciò sulle labbra. Lui, esterrefatto da tanta passione, rispose al bacio con maggiore intensità, assaporando il dolce nettare delle sue labbra. Prima portò le mani ad accarezzarle la lunga fronda rossa, poi scese a sfiorarle le labbra e infine si soffermò sui grandi seni.
Fu allora che la vita dell’uomo si spense, con il cadavere irrigidito che si riversò contro la donna; lei ridendo cristallina si scansò di lato e osservò il proprio lavoro.
Ma poi, la donna che fu la Morte Rossa entrò nel caveau.
E mentre la fu Morte Rossa entrava a ispezionare i reperti archeologici di quella bestiola a sangue caldo, l’uomo avvelenato iniziò a rattrappirsi, consumato da un veleno che aveva iniziato a invadere ogni vaso sanguigno dopo il bacio tanto desiderato: le labbra si tinsero di un opaco verde clorofilla mentre il sangue veniva ripudiato dal corpo a fiotti, uscendo dai pori della pelle in una grande pozza attorno al cadavere, per poi essere sostituito da cloroplasti e cellule protette da una spessa parete cellulare. Se all’inizio il cadavere era riverso in una posizione scomposta sul pavimento marmoreo, con il passare dei secondi la posizione diventava sempre più rigida, con i legamenti che si bloccavano e si ingrandivano diventando più simili a rami che a braccia e gambe e collo: per quando la femme fatale fosse uscita, della vittima umana sarebbe rimasta solo una corteccia che un tempo assomigliava all’uomo che fu.
«Bene bene bene. Se io fossi uno sporco umano, per di più uomo, dove lascerei una povera pianta indifesa?»
Ora la misteriosa femmina si aggirava nel seminterrato, al primo piano dell’enorme camera blindata che si estendeva su ben tre piani. Erano passate le undici di notte da molto tempo, era quasi la mezza.
Resesi conto dell’ora, le sottili dita della femmina con un solo colpo a mano aperta distrussero i vetri di protezione della collezione di antichità e si infilarono in quei cubi frantumati prelevando e riponendo nel sacco tutto ciò che la donna riteneva potesse essere di valore, un sacco che aveva trovato mentre si faceva guidare dal suo ospite nella villa.
Quindi, soddisfatta, scese le scale, e si ritrovò al secondo piano interrato: gemme preziose e gioielli. Tanto interessavano alle sue amiche di carne e sangue.
C’era su freddi scaffali di legno una ricca collezione di pietre e metalli ancora allo stato grezzo, preservati da campane di vetro e un’illuminazione poco intensa. Davanti a ciascun elemento della collezione era posizionata una medaglietta con sopra il nome e le caratteristiche; provenivano da tutto il mondo. Tutto finì nel sacco. Ma dall’altra parte della stanza, oltre una vetrata attraversabile aprendo una porta di vetro, si trovavano i gioielli e poi oltre ad essi le scale per scendere all’ultimo piano del caveau. Quei gioielli avrebbero reso la donna dalle nove vite ancora più ricca e riconoscente verso l’amica delle piante.
Ma fu al terzo piano inferiore della magione che la missione vide la sua soluzione. La fu Morte Rossa increspò le labbra carnose in un sorriso: era vicina alla sorella da salvare!
«Mia povera piccola indifesa amica. Eccoti qui, ma cosa ti hanno fatto? Qui non puoi stare, hai bisogno di vivere di nuovo, ecco ti aiuto io.»
Dentro a una piccola teca di cristallo che custodiva il piatto forte della collezione del miliardario c’era il fossile di una delle prime piante mai apparse sulla Terra, la più antica mai ritrovata! E raggiuntala, un risolino di soddisfazione e di pura gioia eruppe dalla gola della donna. Quindi senza esitazioni spaccò con un pugno la teca di vetro dentro alla quale la pianta addormentata in una matrice rocciosa asfissiava.
La liberò e la strinse alla guancia.
La misteriosa donna e la sua sorella antica si erano ricongiunte.
La fu Morte Rossa era finalmente pronta ad andarsene, ma non aveva finito: la villa, con tutti i suoi ospiti all’interno, si reggeva ancora sulle proprie fondamenta e anche tutti gli ospiti del miliardario ingrato dovevano pagare, e la donna sapeva cosa fare. Depose il sacco con la refurtiva a terra, sul pavimento.
Dopo aver osservato quella stanza rivestita di metallo bianco e illuminata artificialmente, resa dall’uomo aliena alla terra dentro alla quale era stata scavata, sospirò e rivolse lo sguardo verso il proprio addome.
Se prima indossava un misero tanga come unico indumento, si tolse anche quello, rimanendo come quando la Natura l’aveva forgiata anni prima. Immise le sottili dita dentro alle proprie labbra verginee e da esse ricavò un piccolo seme bianco, poco più piccolo di un chicco di riso; lo depose a terra, sulle piastrelle bianche. Subito, da esso ne uscirono mille serpi di edera velenosa che si scagliarono contro il pavimento sventrandolo, contro le pareti strappando le varie assi di metallo fino a ritrovare il terreno e immergersi in esso come fossero radici.
E mentre lei lasciava il caveau risalendo le scalinate interne e poi uscendo dalla porta blindata, queste edere la seguirono nell’ascesa verso il parco, invadendo ogni angolo prima dei tre piani del caveau e poi della villa.
In giardino, nuda e scalza, naturale, con la refurtiva nella mano sinistra e il pezzo di roccia organica nell’altra, tornò fuori, nella brezza estiva, raffrescata dalla notte. Gli uccelli al suo passaggio cantavano le melodie più stupende, le lucertole uscivano dalle loro tane per osservarla, i dobermann che infestavano la proprietà ai danni delle persone non volute si limitarono a guaire e offrirle la loro vulnerabile pancia se avesse voluto accarezzarli.
Ma lei, volle solo richiamare il suo passaggio per andarsene. Era ora di dire addio a tutte quelle persone. A momenti, sarebbe comparso un grande bulbo bianco dal terreno che…
«Hei, non vorrai mica lasciarmi qui! Dopo che li ho tenuti buoni per te!». Una voce risuonò alle spalle della donna floreale.
L’essere dagli occhi con iridi enormi e gialle come il fiore proibito si girò lentamente verso la sorgente della voce acuta e sgraziata, non prima di avere messo nel bocciolo gigante apparso dalla terra il sacco e il fossile.
Ad averla chiamata era una giovane donna, sulla trentina, dai capelli biondi rischiarati dalla luna raccolti in due codini ai lati della calotta cranica. Era appoggiata alla parete del capanno degli attrezzi dei giardinieri, al suo fianco c’era un enorme martello chiodato.
Le due si diedero un lungo bacio mentre i loro corpi si abbracciavano e un sorriso si dipingeva sul viso di entrambe.
«Non mi stavo mica dimenticando della mia bestiola preferita, tranquilla! Invece, fai uscire i tuoi uomini: la villa sta per crollare su se stessa.»
La bionda si staccò dall’abbraccio e si pulì le labbra, godendo del sapore di zucca marcia che proveniva dalla sua amica. Scomparve per qualche minuto dentro alla villa, e ne uscì facendo mille ruote fino a raggiungere la Rossa amica dentro al bocciolo, abbracciandola allegra. E mentre la misteriosa invitata non più mascherata scompariva con la sua amante dentro alle interiora della terra all’interno di un grande bozzolo candido come la neve, centinaia di uomini e donne urlavano mentre le edere strappavano la terra sotto al peso della villa facendola crollare su stessa. Morirono tutti i presenti.
«Harley, tesoro, dimmi, sono morti tutti vero? A parte i tuoi sottoposti non è andato via nessuno. Giusto?»
«Ehm… Quasi. Sono riusciti a eludere la sorveglianza solo tre persone: il miliardario Bruce Wayne, la figlia del commissario Barbara Gordon e il sindaco Adam Smith.»
«Non importa, la mia sorella è al sicuro. Grazie del diversivo.»
MEMORIE DI UNA GATTA LADRA, giorno 21 giugno 2001
Miao.
Trovare la tana della Rossa è stato facile: mi aveva detto che si trovava lungo la costa a est di Gotham e sapendo che da poco tempo un terremoto aveva elevato alcune grotte dal mare, avevo supposto che si potesse trovare in una di quelle. Arrivai via mare, con un motoscafo preso in prestito alla guardia costiera; o meglio, si sarebbero accorti della mancanza solo al mattino seguente, presumo oggi. È sempre bello sentire le onde infrangersi, il sapore di sale, la brezza sul viso. Un bellissimo modo per recuperare il bottino.
All’inizio non ero sicura di trovarla in una delle grotte, stavo navigando da mezz’ora avanti e indietro ma senza alcun risultato palpabile. Poi i miei sensi felini hanno fremuto: non appena il vento cambiò direzione, alle mie narici arrivò l’inconfondibile puzzo di zucca marcia.
Da ciò trovare la tana di Ivy è stato molto facile, mi è bastato parcheggiare il motoscafo ai piedi della scogliera e scalarla con i miei artigli di ferro e l’uso di una corda da arrampicata. L’olezzo mi ha guidato meglio di una luce nel buio, in dieci minuti ero dentro all’antro.
La tana della Rossa è diversa da qualsiasi altra tana immaginabile: non c’è mobilio, o finestre, o porte, o dispense per il cibo. Non c’è nulla di antropico. Quando entrai nella tana, la puzza di zucca marcia sovrastava la salinità dell’ambiente, intollerabile; all’inizio vidi solo una marea di piante, ogni tipo di albero e arbusto, pianta erbacea e rampicante, tutte attorno ad Harley e a un essere ricoperto di papaveri rossi, i fiori preferiti di Harley, e quell’essere era Poison Ivy per i nemici ma per noi semplicemente Pamela. Quelle piante non sembravano semplici piante, ma ramificazioni dell’essenza stessa di Pam, circondandola, cercandola, incurvandosi verso di lei ad ogni suo inspiro ed allontanandosi ad ogni espiro. Ivy era il loro sole, la sua sola presenza permetteva la loro sopravvivenza all’interno di quella che era una grotta marina, ancora tanto umida e coperta qua e là di pozzanghere. Ma le piante sopravvivano grazie alla Rossa, la loro mamma, e grazie alla Rossa tutte erano prodighe di attenzioni verso Harley, che canticchiava sdraiata accanto a lei.
Mi videro, io le salutai. Harley mi fece cenno di avvicinarmi, mentre la Rossa si limitava ad osservarmi con i suoi penetranti occhi gialli.
Ci salutammo, Harley era frizzante come suo solito, sentirla parlare è come ascoltare il canto altalenante di un usignolo, ma molto più acuto e sgraziato. Ivy invece mi salutò fredda, con un tono profondo, come se non stesse parlando il corpo fiorito al fianco di Harley ma tutta la massa di piante nella grotta.
Era ovvio che Pamela non mi volesse nella sua tana, con tutte le sue preziose piante, le sue cosiddette ‘sorelle’. Mi sbrigai a chiedere com’era andato il piano.
Harley, sempre sorridente e piena di energia, proruppe in una risatina e si sporse ad annusare i fiori lungo tutto il corpo dell’amante. Poi estasiata tornò a sdraiarsi come una bambina che aveva appena ricevuto il più bello dei regali, mentre un’edera sopra la sua testa si stava abbassando rivelando nel suo rampicante tanti piccoli petali di papavero rosso danzanti solo per lei. Lei sembrò apprezzare, a me si rizzò ogni pelo che avevo in corpo.
«Splendidamente, non ci sono dubbi a riguardo. Quelle stupide bestie nemmeno si saranno accorte della sparizione dei reperti e della mia sorella. Harley, la mia dolce Harley, ha fatto un lavoro egregio. Solo tre persone sono sopravvissute: Bruce Wayne, Barbara Gordon e il Sindaco Smith. Mi bastano, non ci do troppa importanza. Invece, cosa ne pensi della mia sorella? Non la trovi una pianta eccezionale?»
Quale pianta?, stavo per chiedere, confusa. Poi la notai. Mi si accapponò la pelle, di nuovo ogni singolo pelo del mio corpo si rizzò, un soffio di paura mi salì dalla gola e indietreggiai; il tutto mentre la Rossa mi osservava soddisfatta. Non lo avevo notato prima, ma c’era qualcosa di orrendo all’interno della grotta! Se il pavimento era ricoperto di piante verdi, grandi e piccoli, indifese e predatrici, il soffitto era ricolmo di alghe nere e sottili, sembravano dei sottili serpenti pronti a cadere su di me e divorarmi. Deglutii.
Le chiesi spiegazioni.
«Come vedi, la mia sorella è rinata. Per ora è ancora debole, si deve ambientare al nuovo clima, ma non appena si riprenderà, io e lei faremo grandi cose! Stanne certa, Gotham e tutte le altre cittadine pagheranno per quello che hanno fatto contro le mie sorelle! Ora va’, e prendi con te anche il bottino –non so che farmene di quella spazzatura rubata alla terra– e Harley. Vi avviserò quando noi attaccheremo, tranquilla. Ora andate!»
E un rampicante mi consegnò il bottino, fino a quel momento custodito dentro alle fronde di un piccolo arbusto. Harley di controvoglia baciò la sua amante sulle labbra e si alzò, venendo verso di me. Uscimmo dalla grotta con il bottino da spartirci in mano, ognuna che lo sollevava con una mano. Saltammo in mare dalla scogliera e ci issammo sul motoscafo.
All’orizzonte, in procinto di andarcene, ci girammo a guardare la scogliera. Della grotta ora si vedevano solo velenosi rampicanti verdi strisciare lungo la roccia a chiudere il passaggio e un’inquietante massa nera che si espandeva.
Un bel piano, che mi ha fatto ottenere tanti gioielli e reperti da rivendere, al netto di qualche ricerca architettonica. E con quel bel fascinoso di Bruce che è sopravvissuto, abbiamo rasentato la perfezione.
Sono proprio curiosa di vedere cosa combineranno la mia amica Ivy e quella sua ‘sorella’ ex-fossile. Harley non sembra darci peso, ma temo che per Gotham e per Bruce ci saranno tempi molto brutti.
