Challenge di Febbraio: Le maschere

«Eco qua, queo che gave’ ordina’, bei fioi. Un cafe’ par ti, dotor dea peste, e na ciocoeata calda par sto’ bel Arlechin. Steme ben!»

Maso sedeva agitato mentre osservava il ragazzo con cui si era dato appuntamento quel pomeriggio, un giorno come tanti per loro almeno all’apparenza, ma un giorno speciale nel profondo. Era a disagio mentre osservava le donne ingobbite nei loro foulard vendere rose rosse alle coppiette felici che li circondavano nei tavoli vicini. Era a disagio mentre le fanciulle esaltate dai gesti dei compagni aprivano pacchi piccoli o grandi, manifestazioni dell’animo innamorato. Maso osservava la camicia nera al tavolo al loro fianco che offriva un mazzo di ortensie alla sua bella, in un sorriso orgoglioso. Maso osservava tutto, in silenzio, dal volo dei piccioni sulla piazza alla Cattedrale che si stagliava sul mare, perfino il verso dei gabbiani e il vento impetuoso dalla laguna erano rifugi sicuri. Maso non osava guardare Gùsto in volto, ma Gùsto non aveva occhi che per Maso.

Gùsto sedeva eretto, attento a mostrare in tutta la loro maestosità quelle due spalle larghe che tanto si era guadagnato con il suo lavoro di gondoliere. Il corpo era completamente piastrellato di arcobaleni, il volto semicoperto da una maschera nera e in testa un tricorno bianco. Ma era là, con lui, in quel giorno tanto infelice per loro. Lentamente gustava il liquido caldo e denso, tingeva i baffi biondi di bruno, gli occhi neri non si spostavano di un centimetro dalla maschera dorata e adunca del suo conviviale.

Maso gli chiese se volesse assaggiare un cioccolatino da Perugia, dal nome Liù. All’assenso dell’Arlecchino, sorrise debolmente e dalle tasche estrasse un piccolo cubetto confezionato in rosa. Lo offrì. Gùsto allungò la mano, e mentre lentamente estraeva il cioccolatino dalle dita dell’offerente, con il pollice accarezzò il polso e mentre si allontanava le dita della mano; finalmente Gùsto scartò il velo di carta rosa e violetta, ne venne fuori un piccolo parallelepipedo dal color marroncino chiaro che gustò sotto lo sguardo incantato del dottore della peste.
Ora fu l’Arlecchino a chiedere se potesse offrire qualcosa: un sorso della cioccolata calda. All’assenso del dottore dorato, il gondoliere allungò lentamente la tazza e la porse. Maso l’accolse nelle due mani e se la portò alle labbra. Sulla tazzina bianca c’era un segno marrone dal quale il liquido aveva incontrato le labbra dell’Arlecchino e fu lì che beve, guardandolo negli occhi neri, e fu sempre da lì che l’Arlecchino bevve.

Restarono seduti ancora qualche momento, fino a quando la cameriera non ricomparve: «Fioi, voe’ calcossa in piu’? Na fritoea coea crema, forse?»

Dissero di no, Maso si alzò e andò dentro al bar per pagare. Gli interni erano spettacolari, i muri e i pavimenti d’Istria erano ricoperti con pregiati tappeti persiani, sui muri erano appesi numerosi specchi e nella grande sala imperavano due magnificenti candelabri verdi e rossi e bianchi di vetro pregiato. Maso si osservò allo specchio: un bel ragazzo, si poteva dire, non alto e nemmeno magro ma con due spettacolari occhi cangianti, occhi ora semicoperti dalla maschera. Era là, ma stava veramente vivendo il momento?

«Quanto era bello Scipione sul suo cavallo bianco! Egli fissava i romani con due occhi aperti e la bocca sorridente, ma con gesto forte e animatore e pareva che dicesse “Dobbiamo vincere ad ogni costo!”. Proprio come fa oggi il nostro amato Duce, quando parla ai nostri valorosi soldati. Però il Duce è più bravo e ancora più bello di Scipione!»

Fu il discorso della bambina dalla radio sul bancone a scuotere il rimuginatore dai propri pensieri: lui era là, stava vivendo quell’ora di magica luce con Gùsto e nulla avrebbe potuto rovinarla! Quindi, staccò gli occhi dallo specchio e posò lo sguardò oltre alla vetrina, oltre alla coppia di anziani impegnati a gustare insieme una mozzarella in carrozza, sull’Arlecchino. Ora che Maso non era più al tavolo con lui, Gùsto si era stravaccato sulla sedia, facendo scendere il sedere quasi oltre la fine di essa e appoggiando il capo sullo schienale. Maso sorrise: era così che lo aveva conosciuto due estati prima, alla spiaggia di Punta Sabbioni. Stravaccato e indolente.

Sorridente, si rivolse al barista. Chiese il conto e pagò.

«Grazie, e tornate presto! Ma scusa, non è un po’ presto per le maschere? Oggi è il giorno degli innamorati, non Carnevale!», commentò il barista con un sorriso sornione.
«Mai. Noi, al contrario di molti, le maschere non possiamo mai toglierle. Arrivederci.» e tornò dal compagno.

Insieme Gùsto e Maso girovagarono un po’ per la piazza, osservando e commentando i turisti con i loro inutili libretti e le mille mappe con cui in teoria avrebbero dovuto essere in grado di attraversare Venezia.

Gùsto, con il suo lavoro, sapeva benissimo che in verità quelle cartine per i turisti ingenui erano inutili. Non che Maso, pur in terra straniera, non lo sapesse: non era raro che uscito a prendere il pane notasse una coppia di turisti dall’accento pesante e dalle vocali larghe, ci si fermasse a dar loro indicazioni per la stazione dei treni e quando tornava con la spesa e un po’ d’ombra in stomaco li trovasse a pochi metri di distanza dalla volta precedente, solo in una nuova calle.

Sorrisero insieme.

Stanchi di San Marco, i due costeggiarono il mare e si diressero verso un ponticello tutto bianco. Di solito era invaso dai turisti, ma in quel momento non c’era nessuno. Quindi salirono al vertice delle scalinate e si appoggiarono al parapetto, anch’esso di pietra bianca. La vista ovviamente era il Ponte dei Sospiri. I turisti lo adoravano, loro invece lo osservavano come monito: se fossero stati tranquilli, non sarebbe successo nulla; o almeno così speravano.

«Buon San Valentino…», bisbigliò Arlecchino.

«A te.», rispose il dottore.

E le mani, per una frazione di secondo, si sfiorarono. Una lacrima scese sotto alla maschera adunca e dorata.

Fu una giornata stancante, il mondo celebrava l’amore e l’unione, ma loro preferivano stare tranquilli. Erano persone normali, non volevano andare contro la legge. Non apertamente almeno. Si limitarono a godere l’uno della compagnia dell’altro. Camminarono avanti e indietro, parlarono molto, del tempo, del Duce, dell’imminente guerra, dei gabbiani, dei turisti. Ma non di se stessi. Quello lo fecero quando entrarono in un portone, salirono strettissime scale e Gùsto fece girare la chiave d’ottone nella serratura del proprio appartamento. Una casa piccola e stretta, eretta in un palazzetto a meno di due metri dal palazzo che gli si stagliava di fronte. Una casa piccola, ma almeno i due poterono togliersi le maschere.

Si abbracciarono.

Quella che avete appena letto è una storiella scritta per la Challenge di Febbraio di Raynor’s Hall, che aveva come temi il Carnevale e le cose proibite. Spero abbiate apprezzato. Ciao!

Racconto originale: La fiaba di Ermenegilda

Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dall’indole molto dolce e affettuosa: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che avevano accolto in casa, fin da quando lei lo aveva trovato da cucciolo su un ramo del loro abete. Così, il gattino seguiva le tre sorelle dappertutto. Mentre andavano a scuola nel villaggio nella valle vicina, quando facevano il bagno nel lago, quando andavano a fare le passeggiate tra le montagne. Là, Rodolfa e Genofrida giocavano a fare le spose, mentre la sorella e il gatto ammiravano insieme il panorama.

Un brutto giorno, però, si presentò alla porta uno strano signore accompagnato da tre ancelle; alla vista di tali genti, il padre sbiancò e la madre, ripresasi dal torpore iniziale, ricacciò le figlie a letto sebbene fossero le due del pomeriggio. Dalla loro cameretta, le tre sorelline sentirono tuoni e rombi provenire dalla cucina, ma ubbidienti rimasero dove era stato ordinato loro di stare per ore, fino a quando la calma tornò a regnare nella loro casetta.
Ma poi, le tre sorelline furono sorprese da ciò che scoprirono: nessuno, non c’era nessuno in cucina o in veranda o in soggiorno quando discesero dalla cameretta. «Mamma? Papà? Dove siete?», continuavano a singhiozzare, ma a testimonianza della loro presenza era rimasto solo il tortino di patate nel forno a legna…

Confuse, le tre sorelline non si persero d’animo e uscirono dalla casetta per dirigersi verso le miniere, a chiedere consiglio alla strega: una strana signora che dormiva nelle miniere di ferro, capace di rispondere a qualsiasi domanda e a profetizzare gli eventi futuri.

Per arrivarci dovettero attraversare un fitto bosco ricolmo di alberi e radici contorte, con cespugli rigogliosi e roveti minacciosi. Rodolfa e Genofrida, con le loro gambe agili e le loro figure snelle, ci passavano facilmente; Ermenegilda invece inciampava e cadeva. Ci misero ore ad attraversare i boschi, ma alla fine unite arrivarono alle miniere oscure. Un intricato sistema di cunicoli stretti e bagnati, nei quali le gocce d’acqua conferivano un rivestimento sonoro alquanto inquietante. Forti della loro compagnia, le tre sorelline però non badarono alle ombre che le minacciavano e, finalmente, dopo un periglioso peregrinaggio per quelle vie scavate nella pietra, trovarono la strega.
Dopo essersi presentate, le tre sorelline si inchinarono e porsero alla donna le uniche monete d’oro che erano riuscite a reperire, una moneta nella mano destra di ciascuna bambina. La strega, allora, si alzò e le osservò. Quindi, un’aura azzurra la pervase e lanciò un urlo profetico: «I vostri genitori sono stati portati via per i loro debiti e le loro cattive intenzioni. Volete salvarli? Cercate un modo per ripagare i loro debiti e quando avrete trovato la cifra, sarà Lei a trovarvi. Ora andate!» e le bambine si ritrovarono fuori, nei boschi.

Ora le tre sorelline volevano capire come salvare i loro genitori, ma non si chiesero mai chi fosse quella Lei citata dalla profetessa.

«Rapiniamo la banca Titania! Siamo piccole, chi mai arresterebbe delle ragazzine? Con tutti quei lingotti potremmo ottenere così tante monete d’oro che non solo salveremo mamma e papà, ma anche potremo comprare un castello intero!», argomentava Rodolfa. «No, andiamo a supplicare il Re! Con il nostro bel visino e gli occhioni impauriti nessuna persona con un cuore pulsante nel petto oserà negarci ciò che pretendiamo!», ribatté Genofrida. Ermenegilda le osservava tutta piena d’ansia con i suoi occhietti marroni, mentre proponeva di cercare aiuto dalla loro Fata Madrina: secondo la leggenda, tutti i bambini ne avevano una a proteggerli. «Naaaah!», risposero le due sorelle in coro e lei da quel momento tacque. Tuttavia, Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda non riuscivano a trovare un punto comune sul da farsi e decisero di separarsi; usarono il patto di sangue per sapere cosa sarebbe successo l’una all’altra nell’immediato futuro: tutti sanno che un fiore intriso del sangue di una persona rivelava la sorte della stessa, giusto? E così le tre si separarono, ognuna andandosene con due fiorellini in tasca, scarlatti del sangue delle altre due sorelle. Ermenegilda rimase sola, i suoni delle campanelle appese ai rami erano la sua sola compagnia; esse rappresentavano il segnale dell’accesso alle gallerie in cui la strega risiedeva, a cui però Ermenegilda non poteva più chiedere aiuto.

Sola e sconsolata partì a sua volta.

A dire il vero, Ermenegilda della loro Fata Madrina non aveva grandi ricordi: le famiglie povere, a parte la benedizione al momento del parto, non avevano diritto a molte visite di quella signora. E di quella fatina, la bambina aveva solo un’impressione, un’immagine impressa nella memoria: dalla culla l’aveva scorta una volta sola. Si trattava di una figura sfavillante in un cappuccio rosa, che sembrava emanare luce propria. Uno sguardo dolce e premuroso, le aveva posto parole affettuose mentre le toccava la fronte con la mano calda e morbida. E il dolce profumo dei garofani proveniva dalla fata, quel sentore dolce e vanillato che Ermenegilda percepiva nei momenti bui. Sì, Ermenegilda non aveva mai più incontrato la sua Fata Madrina ma era sicura della sua esistenza! Inoltre, la bambina conosceva il posto in cui le leggende narravano abitasse la Fata Madrina: al mare!

Era verso il mare che infatti voleva dirigersi!

Purtroppo la strada per il mare era lunga e, arrivata la sera, Ermenegilda era fin troppo lontana sia dalla sua casetta sia dal mare tanto agognato: goffa com’era continuava a cadere sui sentieri nei boschi, sulle radici dei grandi pini e dei bianchi abeti, sui massi piatti e scivolosi del torrente che seguiva a ritroso. E in tutto questo non si era ancora nemmeno allontanata dalla valle! Senza accorgersene, al posto di scendere e raggiungere la pianura era salita e aveva scalato il pendio.

Aveva camminato tanto, fino ad arrivare alla fine della giornata ad un altopiano su cui si stagliava una ricca locanda in roccia. E ora? La locanda era un ottimo posto per passare la notte, ma lei non aveva più danaro! Come fare?

«Ma come puoi anche solo chiedermi di ospitarti se non hai i soldi con cui ripagarmi?», le rispose la locandiera prima di chiuderle la porta in faccia.  Sconsolata, Ermenegilda sedette su uno dei gradini di pietra del palazzo ed scoppiò in lacrime, almeno fino a quando una donna gentile non uscì dalla casetta di cristallo a fianco della locanda e le rivolse parole pietose.

«Ma come mai una così brava bambina si mette a piangere tutta sola di tardo pomeriggio? Cosa, non hai i soldi per pagare l’alloggio? Beh, se mi raccogli la legna posso darteli io!»

Ad Ermenegilda non sembrava vero: se avesse raccolto una cesta di legna grossa e fine avrebbe ricevuto cinque monete di bronzo! Felice che la fortuna finalmente le irridesse, smise di piangere e ringraziò la gentile signora.
Piena di energie per la nuova speranza che l’era apparsa, la bambina si guardò attorno e vide una fitta pineta a un centinaio di metri dalla locanda, vicino allo strapiombo roccioso. Veloce e attenta, con la cesta di vimini in mano, raggiunse il bosco e fece incetta di legna secca di pino; tornata dalla vecchina, le porse la pesante cesta e sorrise, nonostante le botte che aveva preso sulle radici degli alberi. Dopo averla ringraziata, prese le monete e si pagò la stanzetta nella locanda a fianco. Stanca e sola com’era, mangiò tantissimo: prima un piatto di stufato di cerbiatto e polenta bianca, poi una bella torta di mirtilli. Soddisfatta e satolla, finalmente le venne sonno. Prima di ritirarsi nella stanza che tanto faticosamente si era guadagnata, volle uscire e cedere alla gentile vecchina un pezzo della fetta di mirtilli che le aveva lasciato da parte ma, al chiaro di luna, notò che oltre alla locanda sull’altopiano non c’era altra costruzione; confusa, Ermenegilda andò a dormire per prepararsi alla lunga camminata che l’attendeva.

Fattasi spiegare per bene le indicazioni per il mare dalla locandiera, Ermenegilda il mattino presto partì e si diresse di buona leva verso il mare, nella direzione giusta, questa volta; felice notò che il gattino selvatico cui aveva dedicato molte attenzioni la seguiva, l’aveva sempre seguita fin da quando aveva lasciato la loro casetta, forse. Non essere più sola durante un viaggio tanto grande la rese immensamente felice, accolse tra le braccia il compagno di avventure e stando attenta a dove metteva i piedi -per non inciampare ancora- arrivò in pianura, lontana dalle montagne: per la prima volta in vita sua era uscita dalla valle!

Ora le bastava solo seguire il torrente cristallino che attraversava le cime rocciose delle montagne e attraverso una bellissima cascata si congiungeva a un laghetto e infine al mare salato e sterminato.  Era quasi arrivata, Ermenegilda se lo sentiva! Pure il gattino fremeva e ronfava tra le sue braccia, con le orecchiette morbide che captavano la luce balzante sull’acqua e gli occhi che osservavano il rinfrescante sciabordio del torrente sulle rocce!

Il ruscello li aveva portati davanti a una strettoia di roccia nera.

Ermenegilda notò come il flusso d’acqua improvvisamente si riduceva a un velo che spariva nella fessura di una delle due pareti nere. La bambina, allora, capì che doveva attraversare la gola, ma quando stava per penetrarvi sentì una stranezza: in tasca, uno dei fiorellini scarlatti di sangue stava appassendo! Sconvolta, Ermenegilda si fermò, posò a terra il gattino bianco e nero ed estrasse il fiorellino. Una lacrima le scese lungo la guancia, mentre lo sguardo si posava sui petali del fiore non più scarlatti. Aveva perso il colore rosso! Era successo qualcosa a Rodolfa! Ma cosa? Aveva veramente provato a rapinare la banca ed era stata impiccata? O le avevano mozzato le mani? Spaventata, la bambinella decise di affrettarsi ed entrò nella gola di roccia nera.

Ermenegilda, però, si era sbagliata!

Quella che pensava fosse la gola tra due valli o una strettoia tra due monumenti in pietra nera si era rivelata l’entrata per un autentico labirinto scavato nell’ossidiana! Infatti, davanti a quella che si era rivelata come un’entrata al labirinto non si stagliavano le distese pianeggianti verso il mare ma un’intricata ramificazione di costruzioni e pareti nere, lucide ma rocciose! E quando svoltava, Ermenegilda si trovava sempre davanti ad altri dieci corridoi stretti tra i quali scegliere, oppure in stanzette circolari piccole e opprimenti. Una volta, si era ritrovata in un vicolo cieco e senza accorgersi della parete c’era andata a sbattere con il naso!

Dopo numerose ore di smarrimento e peregrinazioni, con il cielo che iniziava a tingersi di rosa, il gattino iniziò a comportarsi in modo strano: si agitò tanto per scendere dalle braccia della bambina e fischiò nervoso contro un corridoio che svoltava minaccioso alla destra della bambina! Proprio in quel momento dal corridoio maledetto proruppe una terrificante creatura vermiforme! Spaventata dai mille occhi con cui il mostro bramava le sue carni paffute, la bambina si mise a correre con il cuore che le impazzava in petto e il gattino che la seguiva a ruota!  Corse e corse ancora, corse tra le molte salette circolari con le pareti lucide che inesorabili le mostravano le fauci del mostro più vicine a lei per ogni secondo che passava. Corse a perdifiato, anche inciampando e rimettendosi a correre, corse dietro gli angoli di molti corridoi mentre il mostro cercava di ghermirla con i tentacoli delle fauci. Solo quando l’uscita dal labirinto fu visibile, anch’essa un’apertura tra due pareti lisce, Ermenegilda poté sorridere anche se sfinita: con un ultimo sprint lei e il gattino superarono l’agognata uscita dal labirinto.

Insieme caddero nel dirupo al di fuori del labirinto nero e impenetrabile. Subirono un volo spaventoso e lungo, ma almeno si erano lasciati il verme dai mille tentacoli ad osservarli impotente da lontano.

Per fortuna, lei e il gattino erano precipitati dentro a una pozza di acqua salmastra: si trattava della congiunzione tra la cascata al di fuori del labirinto e il mare dal quale i pescatori riempivano le grandi reti a strascico e le gabbiette di rame intrecciato poste sul fondo del mare.

Stanca e provata, Ermenegilda nuotò con il gattino sulle spalle fino alla riva e uscì dal laghetto: al concludersi della giornata di cammino e di striscianti paure, finalmente la bambina era giunta alla grande città sul mare, lo aveva capito dalla lieve brezza marina che aleggiava in quel bellissimo posto! Infatti, non appena si inoltrò fuori dal parco ai piedi del monte di roccia nera e dentro alla prima strada battuta, Ermenegilda si ritrovò dentro a un centro urbano sul mare, costruito su canali e ponticelli.

Felice di essere finalmente giunta alla meta agognata, la bambina si diresse verso il centro, costeggiando uno dei canali: tutti sanno che le Fate Madrine vivono al centro delle città, nella parte più antica e al tempo stesso più splendida, vero? Lo sanno tutti, ma proprio tutti!

Infine, dopo un’oretta scarsa di cammino, con i lampioni che venivano accesi da smilzi ometti vestiti di arancione, eccola là: una reggia interamente in marmo bianco e rifiniture d’oro, costruita sulla collina artificiale al centro della città, sulla vista panoramica del bacino marittimo a pochi passi da essa e dalla piazza. Davanti alla reggia era stato costruito un grande pilastro nero, alto più di dieci metri e scolpito in bassorilievo con i segni raffiguranti lingue sconosciute e straordinarie creature del Cielo. La Fata Madrina doveva essere dentro al palazzo, Ermenegilda ne era certa. Ed essendo il cancello delle basse mura di mattoni viola spalancato, la bambinella sgusciò nel giardino della Fata Madrina e, piena di speranza, entrò finalmente nel portone di cristallo verde.

Il gattino miagolò: un grande evento stava per compiersi, lei lo sapeva!

Ma nella reggia niente era come Ermenegilda si era immaginata! Non c’erano ampie sale ricolme di mobili d’avorio e statue di divinità immortali e illuminate dalle grandi finestre che aveva scorto dalla strada, né maestosi arazzi o pregiati tappeti o gli splendidi affreschi raffiguranti intrichi di garofani e roseti, neppure le scalinate e i corridoi che un edificio con così tanti piani e ali lasciava presagire. C’era solo uno spazio buio, come se entrando nel tramonto dentro a quel palazzo avesse varcato la soglia della landa dei morti. Spaventata, Ermenegilda stringeva il gattino al petto con tutte le forze, fino a quando il micio quasi non la graffiò al volto; allora, scusandosi con lui per la propria sbadataggine e il proprio egoismo, lo pose a terra. Ma si tenne vicina a esso: quel posto la spaventava enormemente! Era tutto avvolto nella nebbia! E nella nebbia Ermenegilda poteva scorgere orripilanti figuri, corpi scuri che aleggiavano sopra al pavimento impegnati a  fissarla con occhi fiammeggianti!

Ermenegilda urlò, si mise a correre a tentoni nel buio fino a quando non trovò una porta, la aprì e se la chiuse a chiave alle spalle: di certo non avrebbe più messo piede in quel posto maledetto, dove gli spettri infestavano l’aria, dove essi potevano sputarle addosso il loro alito di morte sussurrandole le peggiori profezie e maledizioni!

Sola nella stanza, con il gattino bianco e nero che la osservava muto, Ermenegilda trasalì: nella tasca della gonnella la bambina percepì di nuovo l’essiccarsi di un fiore, l’ultimo fiorellino scarlatto di sangue che poteva essiccarsi! Piena di ansie e desiderosa di conferme, affondò la mano nella tasca e ne estrasse quello che doveva essere l’ultimo fiorellino scarlatto rimasto, ma di esso era rimasto solo un filo marrone e secco con attaccati alcuni foglietti di carta scura e screpolata!

Qualcosa era successo pure a Genofrida! Non poteva più aspettare!

Ironia della sorte: la stanza nella quale si era rifugiata Ermenegilda era una semplice biblioteca di piccole dimensioni, senza altre uscite se non quella da cui era entrata. Per trovare quindi la Fata Madrina e salvare le sue sorelle, la bambina inspirò profondamente e, noncurante del cuore che le batteva forte in petto, si girò verso la porta e la spalancò, affacciandosi verso quella che doveva essere la stanza con la nebbia e le creature inquietanti: nient’altro poteva spaventarla ormai!

Tuttavia, quando Ermenegilda rientrò nel luogo che l’aveva terrorizzata, notò con meraviglia che la nebbia e la tenebra erano scomparse. Al loro posto si trovava un campo di grano, con le spighe che ondeggiavano al vento. In mezzo al campo di grano, sopra a una pedana in granito viola, si stagliava una scalinata a chiocciola che si avviluppava su se stessa fino a incontrare il cielo azzurro che rischiarava la scena. E, sempre sulla pedana e davanti alla scalinata impossibile, era posizionata una porta. Quando Ermenegilda si avvicino alla porta, la sua meraviglia crebbe: la porta era di fine legno chiaro, forse di rovere bianco, ne aveva viste molte giù in paese a casa della sua amica Claretta, e incastonata nella porta si trovava una vetrata verde e rosa. Oltre quella vetrata, Ermenegilda poteva vedere una donna bellissima in abiti petalosi ricamare docile e gentile; tuttavia, oltre la porta, si stagliava la scala a chiocciola verso il cielo e, oltre la scala a chiocciola verso il cielo, Ermenegilda poteva scorgere il campo di grano. Poteva odorare il profumo del frumento, era sicura di essere in mezzo alle piante, in pianura. Con una porta magica davanti a una scalinata impossibile.

La bambina si portò le dita agli occhi e se li stropicciò: forse stava sognando! Ma quando li riaprì, si trovava ancora là, in mezzo al campo di grano. Che stava succedendo?

«Ehi, brava bambina, sono qui!», proruppe improvvisamente una vocina. Lei non capendo da dove potesse provenire si guardò intorno spaesata: non c’era nessuno là con lei, a parte il suo gattino! «Sono qui! In basso, mi vedi? Ecco, brava, sono qui. Sono la chiave che apre la porta per le stanze della Fata Madrina! Se mi acchiapperai potrai accedere al tuo consulto. Prendimi!» e come per magia la chiave d’argento si animò e iniziò a salire la spirale.

Ermenegilda, confusa ma risoluta a catturare la chiave d’argento, salì la pedana di granito viola, superò la porta di rovere bianco per le stanze della Fata Madrina e si slanciò sulla scala a chiocciola che saliva ripida verso il cielo: doveva raggiungere la chiave parlante!

La povera infelice cercava di raggiungerla, ma la chiave era veloce, lei era lenta e incespicava su quei gradini così lisci e inclinati, le sembrava ogni volta di stare per cadere all’indietro, e il corrimano era troppo largo per le sue mani sì paffute ma piccine, non sarebbe riuscita ad afferrarlo se fosse caduta! E così, dopo qualche minuto di rincorsa, Ermenegilda proprio come aveva temuto mancò il gradino successivo e si sbilanciò verso il terreno, rotolando giù per le scale.

Batté la testa e svenne.

«Una così brava bambina non dovrebbe stare qui a farsi male: dovrebbe essere a scuola o a giocare, non credi?»
Una voce gentile e delicata la svegliò, Ermenegilda si trovava in un letto di piume di pavone e oca, con il gattino che dormiva beatamente al suo fianco. Le stava parlando una donna estremamente bella, aveva gli occhi come i pini della valle in cui Ermenegilda era cresciuta, e i lunghi capelli biondi erano intrecciati con mille garofani blu.
«Ma come ci sono arrivata qui, gentile signora?», chiese allora Ermenegilda, non sentendosi ancora pronta a rispondere alla domanda della donna.
«Il tuo gattino. Questo micetto ti si è affezionato moltissimo e devo dire che ha sempre avuto buon gusto! Sai che Rodolfa è stata beccata dalle guardie a rubare tre lingotti alla banca? E Genofrida dopo essere stata cacciata dalla corte e messa in orfanotrofio, per il suo bene intendiamoci, vista la sua posizione, si era messa a fare l’incendiaria! Dopo che l’avevano ospitata con tanto amore e tanta pazienza! Proprio questa mattina. Mentre tu, sbadata sì ma con un gran cuore, hai perseguito la tua causa e quello che credevi giusto nel modo migliore a cui potevi aspirare! Sono veramente colpita, mi hai colpita, Ermenegilda. Questo bel micetto poteva lasciarti ruzzolare giù per le scale, ma invece ha preferito salvarti e prendere la chiave al posto tuo. Lo hai impressionato, e io mando i gatti a controllare tutte le mie protette!»
La donna sorrise, dalla poltrona sulla quale era seduta.

Ermenegilda a quell’ultima informazione guardò stupefatta la donna: era lei la Fata Madrina! E sapeva tutto fin dall’inizio! Certo, un po’ era orgogliosa di come si era complimentata per come aveva trattato il gattino, ma quella donna per quanto gentile sapeva tutto e non aveva fatto nulla! Ed Ermenegilda questo non lo poteva sopportare, non dopo quello che aveva subito in quei due giorni. «Come mai non ha mai fatto nulla? I nostri genitori sono stati portati via, le mie sorelle sono state punite per qualcosa di cui non hanno colpa! Volevamo solo cercare di salvare mamma e papà!»
La Fata Madrina sorrise, anche se il suo sguardo si indurì. «Io non potevo fare nulla. I vostri genitori si erano impoveriti per conto loro, sono stata io a mandare loro le mie ancelle accompagnate da una guardia: vi stavano per vendere per ripagare i debiti! E poi volevo vedere fin dove vi sareste spinte, conoscere la vostra vera natura.» «E qual è la risposta?», chiese subito laconica Ermenegilda.
«Tu sei un capolavoro. Anzi, tieni questi, come ricompensa!»

Ermenegilda cadde in un sonno profondo.

Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori. Questa famigliola era composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dolce: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che era solito appostarsi su uno dei rami del loro abete. Tutti andavano d’amore e d’accordo in quella famiglia, ma un male in verità minacciava di romperla in mille pezzi: la povertà! Quell’anno le trote di cui si nutriva e con le quali sopravviveva la famiglia di pescatori erano molte meno degli anni precedenti e lentamente i debiti avevano invaso le tasche dei due poveri genitori. Loro erano sempre allegri e amorevoli con le loro tre figlie, non volevano interrompere i loro felici pomeriggi e la scuola era importantissima, lo sapevano bene! Così, facevano buon viso a cattivo gioco.

 Almeno fino a quando Ermenegilda scese sola dalla cameretta da letto per parlare con la sua mamma e il suo papà.

Girava a piedi scalzi sul ruvido pavimento di pietra della loro bella casetta, con la sua camicetta da notte tutta rossa. Teneva in mano due grandissime corna da renna, di quelle renne grandi come quelle di Babbo Natale, ma solo tutte sfavillanti e ricoperte di perle e pietre preziose; su un corno c’era scritto: “Proprietà di Ermenegilda”, scolpito così a fondo nell’osso e ricoperto da così tante pietre che era ovviamente sua, quella proprietà straordinaria!
Ermenegilda disse solamente «Tenete, ve le regalo. Così restiamo una famiglia felice, no?», li abbracciò e tornò di sopra, a giocare con le sue sorelle: Rodolfa e Genofrida stavano giocando alle mogli e il gattino faceva lo sposo a turno di ciascuna!

E così, le tre sorelline vissero felici e contente; almeno fino a quando a scuola non ci furono gli esami! Ma quella è un’altra storia. Ciao!

Racconto derivativo: Una scatola molto strana

Si trattava di una specie di scatola color bronzo, lunga non più di mezzo metro e alta e larga circa trenta centimetri. La superficie sembrava incisa con una serie di motivi geometrici, ma osservandoli più da vicino si intuiva che erano in realtà ingranaggi o altre componenti meccaniche. Non presentava un coperchio o anche solo un qualche indizio della presenza di cerniere, perciò non sembrava fosse stata pensata per aprirsi, ma su di uno dei lati erano presenti una serie di piccoli pulsanti colorati che parevano una serratura, oppure una tastiera di controllo. Appoggiandovi un orecchio, si riusciva a sentire un ticchettio metallico provenire dall’interno.

Cosa poteva essere? Arthur non aveva mai visto niente di simile. Era anziano, ma nella sua lunga vita non aveva mai incontrato nulla di simile. L’aveva trovata nel magazzino abbandonato, al largo di Londra; una volta quel posto era il capannone di una grande ditta di lampade ad olio, ma l’inondazione del 1812 aveva completamente allagato la pianura, trasformandola in una palude inabitabile. Perfino attraversarla era difficile, se non impossibile!

Aveva raggiunto il magazzino a bordo della sua bicicletta a vapore, un marchingegno che univa la salubrità dell’attività ginnica -indispensabile per il suo cuore- alla comodità del volo: la catena mossa dai pedali della bici alzava e abbassava la leva per l’immissione del vapore nella camera, la cui pressione sbatteva le ali di metallo applicate alla bici. La sua bici volante a vapore con un piccolo cestino per collezionare i suoi tesori. Era troppo povero per comprarsi quei gingilli tanto utili, quindi quando poteva si divertiva a prenderli dagli edifici in rovina, da coloro tanto sciagurati da lasciarli in giro.

Comunque, dentro all’edificio di alluminio non aveva trovato solo quella strana scatola di bronzo, ma tante altre cose. Piccoli robot a molla che aiutavano con la spinta giusta i lavoratori a trasportare i carichi più leggeri. Un sistema di illuminazione basato sul mulino, reso inutilizzabile dall’inondazione. Grandi bracci meccanici a vapore per l’inscatolamento delle lampade ad olio. E tante altre diavolerie.

Ad Arthur quel posto era piaciuto tantissimo.

Certo, la palude non era attraversabile a piedi o in barca per le radici e i tronchi caduti e le sanguisughe giganti non rendevano di certo più facile il transito, ma con una bella bici volante (o una mongolfiera a vapore, se fosse riuscito a metterci le mani sopra) era possibile raggiungere quel posto così simpatico seppur in rovina.

Ma era tardi, ora, l’orologio a pendolo suonava le nove di sera. Arthur coprì con un telo il suo tesoro appena trovato e lo lasciò vicino al letto, con gli altri recuperati negli anni. Si rimise il braccio meccanico, una banda di metallo resa mobile con una serie di ingranaggi all’altezza della spalla, del gomito e del polso, e scese: sua figlia aveva preparato la zuppa di carote e lui moriva dalla fame!

Fonte originale: qui

Racconto originale: Un cazzaccio

“Cazzo, cazzo, CAZZO!”

Come ogni giorno alle otto di sera, Zusistri si svegliò in ritardo con la quinta sveglia che strillava la sua pigrizia. E di pigrizia ne aveva molta: una pelle sudata e unta, due tettine che avrebbero potuto competere per Miss Maglietta Bagnata e una pancia smisurata, secondo le voci in proporzione inversa rispetto al cazzettino dell’omone. Una bella persona, a modo e sempre gentile.
E così, come ogni giorno Zusistri dovette dire addio alla bella bionda, che lo desiderava e lo cercava, e svegliarsi nelle lenzuola umide di sudore, con il cuore a mille e la consapevolezza di essere in ritardo per il lavoro.

Subito disceso dal lettone sfondato, Zusistri cercò le sue pantofole e quasi schiantò il capo pelato contro il mobiletto al fianco del letto; fortuitamente evitato l’impatto, trovò le pantofole sul tappetino, le indossò e si catapultò giù per le scale in cucina.

Caffè. Brioche alla marmellata. Pane imburrato e il giornale del mattino, di cui leggeva solo il titolone della prima pagina; mammina come al solito era stata premurosa, il suo bambinone non poteva trovare nulla fuori posto. Tovagliolo per pulirsi sommariamente la bocca lercia e infine in bagno.

Si lavava i denti con uno spazzolino elettrico, anche se le pile erano stanche da settimane: troppa fatica scendere in cantina per risalire col bottino elettrochimico, e la mamma si rifiutava di farlo per lui! Zusistri si lavava i denti con uno spazzolino elettrico senza energia per funzionare e con spatole troppo piccole per un lavaggio manuale appropriato. Ma almeno si lavava i denti, si rasava pure la barba con il rasoio elettrico ogni giorno: almeno, quello era attaccato alla presa del muro e mai esauriva le batterie. Ecco, quando non faceva a tempo non si lavava le ascelle o il petto rigoglioso, ma, tanto, quali donne lo avrebbero sniffato con fare malizioso?

E poi, si vestì. Era sempre difficile indossare quelle magliettone larghe, sformate, doveva alzare le braccia! Ma almeno in camera poteva guardare i suoi cazzi preferiti.

E che cazzi!

Il quadro più grande, posto di fronte al letto, raffigurava un cazzo di cane. Adorava quella pianta: le bacche erano di un bell’arancio sgargiante, disposte in fila a comporre una piccola pannocchia che dava mais arancione. Non era una comune rosa rossa o il tulipano che puoi trovare nelle distese rosse al fianco dei binari in aperta campagna. Era un fiore ombroso e capace di vivere pure a centinaia di metri di altitudine! E aveva pure un altro nome comune: pan di serpe. Pane, quello che Zusistri adorava divorare guardando L’isola dei famosi. Sacchi su sacchi in una sola serata.

Al fianco della cassettiera, invece, si trovava la raffigurazione del cazzo di re. Quanto avrebbe voluto tenere quel pesce in casa, in acquario magari! Sapeva che si poteva tenere in acquario, lo aveva visto su Instagram! Un bell’acquario dalle luci sgargianti per esaltare le bellissime squame del pesce, quella stupenda linea centrale di colore arancione… Non capiva perché mamma non volesse concederglielo nella cameretta, non aveva nemmeno grandi dimensioni! Ma tanto, sapeva che non lo avrebbe mai fatto, il tutto avrebbe comportato fin troppo impegno per un cazzaccio come lui.

E ultimo ma non per importanza, sopra alla porta della camera da letto aveva appeso una foto del cazzo di mare che gli aveva regalato un suo amico. Genghindele. Lui sì che era un uomo: tante donne, un lavoro ben remunerato, una vita perfetta coronata da un corpo scolpito dalle ore in palestra e dai viaggi in giro per il mondo. Quel pesce lo aveva avvistato nell’Oceano Pacifico, sul fondale. Ore di sub e mille foto, di cui una regalata al suo vecchio amico sempre a casa davanti alla televisione. Genghindele era un vero amico, gli aveva dato lui la soffiata del lavoro! E la foto dell’oloturia stava benissimo sopra alla porta, quella sabbia così grigia e quel mare così blu si stagliavano perfettamente contro la parete di piastrelle marroni.

Zusistri li osservava soddisfatto, tutti quei cazzi appesi alle pareti. Ora era pronto per andare a lavorare. Tuttavia, osservò la porta d’ingresso, infine rivolse lo sguardo al letto.

«Sticazzi!»

Si sarebbe dato malato. Era proprio un cazzaccio.

Un fiore è sbocciato

Un fiore. Una gemma è sbocciata. Un bocciolo è fiorito meraviglioso. Finalmente una meraviglia floreale è apparsa. Alla fine un fiore meraviglioso è riuscito a nascere. Alla fine la primavera ha vinto e la gemma che ti stupisce da quanto è bella si è aperta. Finalmente, l’inverno è stato sconfitto dalla primavera la quale è stata in grado di vedere uno dei suoi sudditi arricchirsi di una corona d’oro e del mantello bianco. La stagione dei fiori, vincitrice dell’inverno, vede la bella figlia diventare regina. E…

…e niente, è tutto finito.

Una capra ha mangiato la margherita e se n’è andata.

A brown goat eating a daisy.

Il castello di Otranto

Scritto da Horace Walpole nel 1764, Il Castello di Otranto è il primo romanzo gotico, famoso per essere riuscito a fondere in sé il genere letterario epico-cavalleresco, ormai uscito di moda già nell’epoca elisabettiana, con il genere architettonico gotico.
La fortuna di questo fantastico romanza si basa sulla sua capacità di creare un’atmosfera magica usando solo un castello medievale e un’epoca di credenze e superstizioni, capaci di trascinare il lettore in un vortice di apparizioni e nefandezze: la lettura è fluida e coinvolgente e può piacere a chiunque.

Trama:
Siamo al Castello di Otranto. La bella Isabella sta per sposare Corrado, il malaticcio figlio dei signori di Otranto Manfredi e Ippolita, quando i servi corrono a interrompere l’attesa delle nozze con una terribile notizia: un elmo gigantesco ha schiacciato l’erede di Otranto e il quasi marito di Isabella. Da qui le manifestazioni paranormali saranno sempre maggiori fino ad arrivare all’omicidio perpetrato in famiglia.

A me questo libro è piaciuto molto e lo ho letto tutto d’un fiato: è corto e non annoia mai. In esso ho trovato quel gusto per un Medioevo notturno e sepolcrale, popolato di terrificanti fantasmi e di eventi prodigiosi, di vendette e di antiche profezie. Inoltre, non c’è mai vera violenza, ma sempre un’atmosfera mistica e cavalleresca.


Lo consiglio a tutti.^^

Eccolo

Ho pensato che alla fine gli animali domestici sono quelli che ci stanno accanto incondizionatamente e quindi ho scritto questo breve testo su Dylan, il mio cane e me.

Torno a casa… Sono stravolto: ore passate a scuola, pochissimo relax e poi subito a tennis.
Arrivo davanti alla porta di casa, inserisco la chiave nella toppa e giro… entro, finalmente, e mi tolgo dalle spalle la sacca.
Che stanco!
Mi tolgo la giacca e le scarpe, accendo la tv e guardo la squadra della scientifica di Las Vegas intenta a risolvere complicati crimini, nella serie di “CSI, Scena del crimine”.
So che oltre la porta del soggiorno, oltre il corridoio, oltre una porta aperta mia sorella è seduta alla scrivania a studiare. Non vale la pena salutarla…
So che i miei genitori sono via: papà a cantare nel suo coro, mamma alla sua riunione mensile dei medici…
Ma so anche che non sono solo nella stanza… So che c` è lui…
Lo chiamo… e lo chiamo ancora… e alla fine arriva… Lo sento mentre cammina verso di me, felice di vedermi dopo tante ore di assenza… I suoi occhi marroni mi scrutano nel profondo… I suoi peli neri risplendono creando mille sfumature, illuminati dalla lampada… Arriva, e appoggia la testa sulla mia gamba… E io allungo la mano per accarezzare lui e quel suo pelo di velluto.
Lui è con me e mi farà compagnia mentre mi riposo. C`è da anni… E ci sarà per sempre…

Dylan, il mio cane, creatura dolce e comprensiva.