Racconto derivativo: Il tesoro nascosto

Una X sulla mappa, un tesoro da scoprire, un viaggio inaspettatamente irto di pericolo. John e Sarah si guardavano negli occhi, fradici e tremanti, mentre con la cartina in mano guardavano la galleria che si dipanava davanti a loro.

«Pronta?», chiese lui.

«Certo! Ma ce la faremo senza torcia e viveri? Là sotto sembra molto buio… C’è una sola apertura dall’altra parte della grotta e sembra che le tenebre siano pronte a divorarci, nascondendo altri trabocchetti!»

Sarah non si sbagliava. Già Arthur e William erano caduti in trappola, il primo in un fossato ricolmo di picche di legno, l’altro aveva messo il piede nel punto sbagliato del ponte ed era crollato nell’abisso insieme ad esso. Solo in due erano sopravvissuti a tutte quelle trappole, al tuffo dalla cascata e all’affioramento nella grotta sottostante ad essa.  

Ma i pericoli erano ancora molti.

Senza esitare, perché ormai non potevano fare altro, Sarah e John iniziarono ad esplorare il tunnel, tenendosi per mano e con quella libera tastando il muro di roccia attorno a loro. La situazione sembrava tranquilla, ma se quel viaggio alla ricerca del tesoro del Pirata Barbaviola fosse stato semplice, in quel momento non si sarebbero trovati solo loro due! Nella penombra riuscirono a scorgere una piccola scalinata che, percorsa per diversi minuti, li portò in una valle scavata nella roccia da un grande fiume.
I due scesero a controllare da che parte andare.

«John, secondo te, che fiume è?»

«Non lo so Sarah, ma non deve essere un grande fiume, non deve essere profondo. Potremmo attraversarlo, mi sembra che da quella sponda ci sia una rientranza nella parete da cui proviene della luce!»

Visto che la ragazza non aveva argomenti con cui controbattere, lo seguì nell’acqua, dove il fiume sembrava meno profondo. Il ragazzo aveva ragione: placido e mediamente poco profondo, con il letto leggermente inclinato, l’attraversamento procedette senza problemi; almeno finché dalle acque non emerse un enorme serpente che afferrò John per la gamba destra e lo fece sparire sott’acqua. Inutile fu ogni tentativo della ragazza di soccorrerlo o quantomeno trovarlo.

Sola e sotto shock, Sarah uscì dalle acque maledette e raggiunse la rientranza della parete. Effettivamente usciva luce e, osservando meglio, c’era un piccolo passaggio tra due pareti di roccia accostate l’una sull’altra.

“Dai, che ce la faccio, sì, entrata e… Oh mio Dio!”

Sarah si trovò davanti a un grande forziere, che nella penombra sembrava socchiuso. Esuberante di felicità e soddisfazione nonostante tutte le perdite che aveva subito, con la mente tornò a quando lei e i suoi tre amici erano venuti in possesso della fantomatica mappa.

Finalmente, il tesoro era suo!

Subito la ragazza corse al forziere, inginocchiandosi prima di aprirlo per assaporare da vicino la vista dell’oro e dei preziosi in esso contenuti. Lo aprì e… e venne assalita da un altro serpente, simile a quello che aveva ucciso John, che aveva fatto la tana proprio in quel forziere.

E così, quel tesoro non fu più ritrovato, e non lo è nemmeno adesso!

Quello che avete letto era un elaborato da un esercizio offerto da: Diaro del Viandante Nero

Challenge di Pasqua: L’Uovo di Pasqua scomparso

Uovo di Pasqua scomparso
Bambino dà fuoco alla villa dei genitori per la rabbia

Roma 20 Aprile 2003. Un incendio doloso ha devastato Villa Grande, una delle residenze della ricca famiglia Agrippa. A compiere il gesto è stato il rampollo della famiglia, Albertino, studente dai voti altissimi e dal comportamento irreprensibile presso il collegio Santa Peppina.
Dalle recenti testimonianze che siamo riusciti a raccogliere, sembra che il bambino fosse finalmente tornato a casa dall’esilio scolastico per le vacanze pasquali e, il giorno di Pasqua, quando aprì la credenza scoprì che il tanto agognato Uovo di cioccolato ripieno di crema al pistacchio e noci moscate era scomparso! Inutile dire che tutta la frustrazione e la rabbia accumulate durante le settimane precedenti scoppiarono in quel momento.

«No comment, per favore. Lasciateci in pace. È stata una disgrazia del tutto accidentale, andate via!»
Sono queste le parole di Aliberto Agrippa, mentre si apprestava ad andare in ospedale per visitare sua moglie Adalgisa e il figlio Albertino, entrambi ricoverati per problemi polmonari.

Tuttavia, qualche ora fa, quando finalmente la famiglia uscì dalla clinica per dirigersi a Villa Larga, nelle campagne dei Monti Tiburtini, il signor Agrippa ci concesse una dichiarazione:
«Stiamo tutti bene, ci godremo il giorno di Pasqua e domani vedremo il resto della nostra famiglia. Mia moglie e il mio primogenito stanno bene, è stato un falso allarme. Pare sia stata una fuga di gas, niente di cui valga la pena parlare. Buona giornata.»

E così tutto si è concluso per il meglio per la famiglia Agrippa, un po’ meno per Villa Grande, completamente divorata dalle fiamme. Dulcis in fundo, sembra che l’Uovo di Pasqua sottratto ad Albertino Agrippa sia stato ritrovato ad attenderlo in Villa Larga. Un lieto fine per tutti!

Marcello Analfi sorrise e ripiegò il giornale, lo depose con cura nella cassettina di acero. Era un giornale vecchio, risalente a vent’anni prima. Ogni anno lo tirava fuori dalla scatola dei ricordi della vecchia terra natia e si tuffava in quelle memorie impresse nella carta a caratteri neri. Cambiare continente era stato un passo importante, si era scelto un bell’appartamentino su due piani, vista Central Park, un luminoso attico. Il piano superiore era un attico, quello inferiore invece somigliava più a una reggia. Piccola ma sempre una reggia.

Soddisfatto dal tuffo e ancora bagnato di quel fumo carico di rabbia, di cui aveva appena letto, si alzò dalla poltrona e si diresse in sala da pranzo: erano le sette del mattino di Pasqua, doveva controllare che il suo Uovo pasquale fosse al suo posto!

Con passo sicuro e lento, mentre ammirava la sua collezione di paesaggi alpini posta ai lati dell’ampio soggiorno, finalmente uscì dalla stanza e si diresse verso la sala da pranzo, al tavolo di mogano nero già apparecchiato a festa. Quella punta di nero in mezzo al muro di cristallo che dava sul parco, la moquette bianca e le pareti celesti. Al fianco del tavolo, sulla parete che dava alla cucina, c’era una credenza napoletana: bianca con inserti d’oro, era bassa e larga a due ante. Chinandosi leggermente, Marcello aprì l’anta sinistra e… e la richiuse, per riaprirla di nuovo. Quindi ci infilò la testa dentro, si alzò di scattò e imprecò non avendola tirata fuori in tempo dal mobile.

L’Uovo di Pasqua era sparito!

Con il respiro diventato improvvisamente frenetico, Marcello si massaggiò la testa nel punto indolenzito e si girò a squadrare la stanza. Niente, l’Uovo non era né al suo posto né in altri punti della sala da pranzo! Dove poteva essere? Là si potevano osservare solo i posti a tavola imbanditi, i Gueridon ricolmi di pietanze e le decorazioni.

Non poteva essere lontano, Marcello ne era certo, il tic all’occhio stava ricomparendo, con immagini di fiamme voraci, il respiro non accennava a calmarsi e la febbre lo faceva tremare senza controllo. Doveva trovare l’Uovo!

Quasi correndo, aprì di corsa la porta della cucina e vi ci si catapultò negli sguardi attoniti delle due cuoche e della cameriera intente a continuare i preparativi delle ultime portate. Sudato, con la cravatta che minacciava di diventare un cappio, Marcello deglutì e osservò brevemente la stanza. No, non c’era. Chiese conferma anche alle dipendenti, ma nessuno lo aveva visto! Dove poteva essere? Nel ripostiglio della cucina? No, lo avrebbero notato. Frenetico, Marcello scappò dalla cucina, attraversò la sala da pranzo e si diresse verso il corridoio che collegava quasi tutte le stanze del piano, verso la sala da biliardo. Niente, pure là. E nemmeno nei tre armadi della hall!

Mancava una sola cosa da fare a Marcello, e non era appiccare un incendio. Aveva promesso a mamma di non farlo mai più! Doveva controllare l’attico!

Il piano superiore era molto elegante, contava solo quattro stanze di cui due erano camere da letto ma aveva una terrazza panoramica spettacolare accessibile da entrambe le camere. E come se ciò non fosse abbastanza, il soffitto della camera padronale era di puro cristallo semitrasparente, con un telo elettrico che fungeva da soffitto a richiesta del telecomando interno; ottimo per vedere le stelle, abbastanza scuro da coprire parzialmente la luce del sole al mattino. Nello studio, l’Uovo di Pasqua non c’era. In bagno, nemmeno. Camera degli ospiti neanche. Restava solo la camera padronale, quella che lui ed Eva avevano scelto e arredato insieme. Anch’essa sulle sfumature del bianco. E al momento isolata da una porta vetrata serrata.

Con il cuore in mano, Marcello lentamente abbassò la maniglia e spinse il pannello in legno d’acero della porta. Aveva gli occhi secchi, un gran mal di testa minacciava di rovinargli la giornata. A nulla era servito partire per l’America a rifarsi una nuova vita, a nulla era servito cambiare nome e assumere il cognome della madre. Anche quell’anno, il suo Uovo di Pasqua ripieno di crema al pistacchio e noci moscate era scomparso. Ma non aveva senso arrabbiarsi. Avvilito e improvvisamente stanco, ancora con la mano sulla maniglia della porta, Marcello, o Albertino che dir si voglia, tornò in corridoio. Non aveva guardato nemmeno in stanza, ormai conosceva la risposta.

Triste, si girò per andare verso la poltrona ad aspettare che Eva si svegliasse. 

“Marcello, come here!”

Era Eva a chiamarlo, la sua bella mogliettina latina. Si era svegliata! Marcello sorrise, quella si faceva sempre delle dormite lunghe e rilassanti, altro che le sue nevrosi! Con un sorriso stampato in volto, l’uomo entrò nella loro camera da letto e si pietrificò alla vista di quello che vide: Eva era seduta sul letto, con la schiena appoggiata ai molti cuscini grigi, nuda e l’Uovo in grembo. La leonesca cascata di capelli del colore del cioccolato le ricadeva sulle spalle, gli occhi neri fissi sul viso illuminato di Marcello, ancora sulla porta.

“Marcello. Come here. Hurry up!”

Marcello si tolse la cravatta e andò a conquistare il suo premio pasquale tanto agognato. Buona Pasqua!

Challenge di Febbraio: Le maschere

«Eco qua, queo che gave’ ordina’, bei fioi. Un cafe’ par ti, dotor dea peste, e na ciocoeata calda par sto’ bel Arlechin. Steme ben!»

Maso sedeva agitato mentre osservava il ragazzo con cui si era dato appuntamento quel pomeriggio, un giorno come tanti per loro almeno all’apparenza, ma un giorno speciale nel profondo. Era a disagio mentre osservava le donne ingobbite nei loro foulard vendere rose rosse alle coppiette felici che li circondavano nei tavoli vicini. Era a disagio mentre le fanciulle esaltate dai gesti dei compagni aprivano pacchi piccoli o grandi, manifestazioni dell’animo innamorato. Maso osservava la camicia nera al tavolo al loro fianco che offriva un mazzo di ortensie alla sua bella, in un sorriso orgoglioso. Maso osservava tutto, in silenzio, dal volo dei piccioni sulla piazza alla Cattedrale che si stagliava sul mare, perfino il verso dei gabbiani e il vento impetuoso dalla laguna erano rifugi sicuri. Maso non osava guardare Gùsto in volto, ma Gùsto non aveva occhi che per Maso.

Gùsto sedeva eretto, attento a mostrare in tutta la loro maestosità quelle due spalle larghe che tanto si era guadagnato con il suo lavoro di gondoliere. Il corpo era completamente piastrellato di arcobaleni, il volto semicoperto da una maschera nera e in testa un tricorno bianco. Ma era là, con lui, in quel giorno tanto infelice per loro. Lentamente gustava il liquido caldo e denso, tingeva i baffi biondi di bruno, gli occhi neri non si spostavano di un centimetro dalla maschera dorata e adunca del suo conviviale.

Maso gli chiese se volesse assaggiare un cioccolatino da Perugia, dal nome Liù. All’assenso dell’Arlecchino, sorrise debolmente e dalle tasche estrasse un piccolo cubetto confezionato in rosa. Lo offrì. Gùsto allungò la mano, e mentre lentamente estraeva il cioccolatino dalle dita dell’offerente, con il pollice accarezzò il polso e mentre si allontanava le dita della mano; finalmente Gùsto scartò il velo di carta rosa e violetta, ne venne fuori un piccolo parallelepipedo dal color marroncino chiaro che gustò sotto lo sguardo incantato del dottore della peste.
Ora fu l’Arlecchino a chiedere se potesse offrire qualcosa: un sorso della cioccolata calda. All’assenso del dottore dorato, il gondoliere allungò lentamente la tazza e la porse. Maso l’accolse nelle due mani e se la portò alle labbra. Sulla tazzina bianca c’era un segno marrone dal quale il liquido aveva incontrato le labbra dell’Arlecchino e fu lì che beve, guardandolo negli occhi neri, e fu sempre da lì che l’Arlecchino bevve.

Restarono seduti ancora qualche momento, fino a quando la cameriera non ricomparve: «Fioi, voe’ calcossa in piu’? Na fritoea coea crema, forse?»

Dissero di no, Maso si alzò e andò dentro al bar per pagare. Gli interni erano spettacolari, i muri e i pavimenti d’Istria erano ricoperti con pregiati tappeti persiani, sui muri erano appesi numerosi specchi e nella grande sala imperavano due magnificenti candelabri verdi e rossi e bianchi di vetro pregiato. Maso si osservò allo specchio: un bel ragazzo, si poteva dire, non alto e nemmeno magro ma con due spettacolari occhi cangianti, occhi ora semicoperti dalla maschera. Era là, ma stava veramente vivendo il momento?

«Quanto era bello Scipione sul suo cavallo bianco! Egli fissava i romani con due occhi aperti e la bocca sorridente, ma con gesto forte e animatore e pareva che dicesse “Dobbiamo vincere ad ogni costo!”. Proprio come fa oggi il nostro amato Duce, quando parla ai nostri valorosi soldati. Però il Duce è più bravo e ancora più bello di Scipione!»

Fu il discorso della bambina dalla radio sul bancone a scuotere il rimuginatore dai propri pensieri: lui era là, stava vivendo quell’ora di magica luce con Gùsto e nulla avrebbe potuto rovinarla! Quindi, staccò gli occhi dallo specchio e posò lo sguardò oltre alla vetrina, oltre alla coppia di anziani impegnati a gustare insieme una mozzarella in carrozza, sull’Arlecchino. Ora che Maso non era più al tavolo con lui, Gùsto si era stravaccato sulla sedia, facendo scendere il sedere quasi oltre la fine di essa e appoggiando il capo sullo schienale. Maso sorrise: era così che lo aveva conosciuto due estati prima, alla spiaggia di Punta Sabbioni. Stravaccato e indolente.

Sorridente, si rivolse al barista. Chiese il conto e pagò.

«Grazie, e tornate presto! Ma scusa, non è un po’ presto per le maschere? Oggi è il giorno degli innamorati, non Carnevale!», commentò il barista con un sorriso sornione.
«Mai. Noi, al contrario di molti, le maschere non possiamo mai toglierle. Arrivederci.» e tornò dal compagno.

Insieme Gùsto e Maso girovagarono un po’ per la piazza, osservando e commentando i turisti con i loro inutili libretti e le mille mappe con cui in teoria avrebbero dovuto essere in grado di attraversare Venezia.

Gùsto, con il suo lavoro, sapeva benissimo che in verità quelle cartine per i turisti ingenui erano inutili. Non che Maso, pur in terra straniera, non lo sapesse: non era raro che uscito a prendere il pane notasse una coppia di turisti dall’accento pesante e dalle vocali larghe, ci si fermasse a dar loro indicazioni per la stazione dei treni e quando tornava con la spesa e un po’ d’ombra in stomaco li trovasse a pochi metri di distanza dalla volta precedente, solo in una nuova calle.

Sorrisero insieme.

Stanchi di San Marco, i due costeggiarono il mare e si diressero verso un ponticello tutto bianco. Di solito era invaso dai turisti, ma in quel momento non c’era nessuno. Quindi salirono al vertice delle scalinate e si appoggiarono al parapetto, anch’esso di pietra bianca. La vista ovviamente era il Ponte dei Sospiri. I turisti lo adoravano, loro invece lo osservavano come monito: se fossero stati tranquilli, non sarebbe successo nulla; o almeno così speravano.

«Buon San Valentino…», bisbigliò Arlecchino.

«A te.», rispose il dottore.

E le mani, per una frazione di secondo, si sfiorarono. Una lacrima scese sotto alla maschera adunca e dorata.

Fu una giornata stancante, il mondo celebrava l’amore e l’unione, ma loro preferivano stare tranquilli. Erano persone normali, non volevano andare contro la legge. Non apertamente almeno. Si limitarono a godere l’uno della compagnia dell’altro. Camminarono avanti e indietro, parlarono molto, del tempo, del Duce, dell’imminente guerra, dei gabbiani, dei turisti. Ma non di se stessi. Quello lo fecero quando entrarono in un portone, salirono strettissime scale e Gùsto fece girare la chiave d’ottone nella serratura del proprio appartamento. Una casa piccola e stretta, eretta in un palazzetto a meno di due metri dal palazzo che gli si stagliava di fronte. Una casa piccola, ma almeno i due poterono togliersi le maschere.

Si abbracciarono.

Quella che avete appena letto è una storiella scritta per la Challenge di Febbraio di Raynor’s Hall, che aveva come temi il Carnevale e le cose proibite. Spero abbiate apprezzato. Ciao!

Racconto originale: La fiaba di Ermenegilda

Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dall’indole molto dolce e affettuosa: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che avevano accolto in casa, fin da quando lei lo aveva trovato da cucciolo su un ramo del loro abete. Così, il gattino seguiva le tre sorelle dappertutto. Mentre andavano a scuola nel villaggio nella valle vicina, quando facevano il bagno nel lago, quando andavano a fare le passeggiate tra le montagne. Là, Rodolfa e Genofrida giocavano a fare le spose, mentre la sorella e il gatto ammiravano insieme il panorama.

Un brutto giorno, però, si presentò alla porta uno strano signore accompagnato da tre ancelle; alla vista di tali genti, il padre sbiancò e la madre, ripresasi dal torpore iniziale, ricacciò le figlie a letto sebbene fossero le due del pomeriggio. Dalla loro cameretta, le tre sorelline sentirono tuoni e rombi provenire dalla cucina, ma ubbidienti rimasero dove era stato ordinato loro di stare per ore, fino a quando la calma tornò a regnare nella loro casetta.
Ma poi, le tre sorelline furono sorprese da ciò che scoprirono: nessuno, non c’era nessuno in cucina o in veranda o in soggiorno quando discesero dalla cameretta. «Mamma? Papà? Dove siete?», continuavano a singhiozzare, ma a testimonianza della loro presenza era rimasto solo il tortino di patate nel forno a legna…

Confuse, le tre sorelline non si persero d’animo e uscirono dalla casetta per dirigersi verso le miniere, a chiedere consiglio alla strega: una strana signora che dormiva nelle miniere di ferro, capace di rispondere a qualsiasi domanda e a profetizzare gli eventi futuri.

Per arrivarci dovettero attraversare un fitto bosco ricolmo di alberi e radici contorte, con cespugli rigogliosi e roveti minacciosi. Rodolfa e Genofrida, con le loro gambe agili e le loro figure snelle, ci passavano facilmente; Ermenegilda invece inciampava e cadeva. Ci misero ore ad attraversare i boschi, ma alla fine unite arrivarono alle miniere oscure. Un intricato sistema di cunicoli stretti e bagnati, nei quali le gocce d’acqua conferivano un rivestimento sonoro alquanto inquietante. Forti della loro compagnia, le tre sorelline però non badarono alle ombre che le minacciavano e, finalmente, dopo un periglioso peregrinaggio per quelle vie scavate nella pietra, trovarono la strega.
Dopo essersi presentate, le tre sorelline si inchinarono e porsero alla donna le uniche monete d’oro che erano riuscite a reperire, una moneta nella mano destra di ciascuna bambina. La strega, allora, si alzò e le osservò. Quindi, un’aura azzurra la pervase e lanciò un urlo profetico: «I vostri genitori sono stati portati via per i loro debiti e le loro cattive intenzioni. Volete salvarli? Cercate un modo per ripagare i loro debiti e quando avrete trovato la cifra, sarà Lei a trovarvi. Ora andate!» e le bambine si ritrovarono fuori, nei boschi.

Ora le tre sorelline volevano capire come salvare i loro genitori, ma non si chiesero mai chi fosse quella Lei citata dalla profetessa.

«Rapiniamo la banca Titania! Siamo piccole, chi mai arresterebbe delle ragazzine? Con tutti quei lingotti potremmo ottenere così tante monete d’oro che non solo salveremo mamma e papà, ma anche potremo comprare un castello intero!», argomentava Rodolfa. «No, andiamo a supplicare il Re! Con il nostro bel visino e gli occhioni impauriti nessuna persona con un cuore pulsante nel petto oserà negarci ciò che pretendiamo!», ribatté Genofrida. Ermenegilda le osservava tutta piena d’ansia con i suoi occhietti marroni, mentre proponeva di cercare aiuto dalla loro Fata Madrina: secondo la leggenda, tutti i bambini ne avevano una a proteggerli. «Naaaah!», risposero le due sorelle in coro e lei da quel momento tacque. Tuttavia, Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda non riuscivano a trovare un punto comune sul da farsi e decisero di separarsi; usarono il patto di sangue per sapere cosa sarebbe successo l’una all’altra nell’immediato futuro: tutti sanno che un fiore intriso del sangue di una persona rivelava la sorte della stessa, giusto? E così le tre si separarono, ognuna andandosene con due fiorellini in tasca, scarlatti del sangue delle altre due sorelle. Ermenegilda rimase sola, i suoni delle campanelle appese ai rami erano la sua sola compagnia; esse rappresentavano il segnale dell’accesso alle gallerie in cui la strega risiedeva, a cui però Ermenegilda non poteva più chiedere aiuto.

Sola e sconsolata partì a sua volta.

A dire il vero, Ermenegilda della loro Fata Madrina non aveva grandi ricordi: le famiglie povere, a parte la benedizione al momento del parto, non avevano diritto a molte visite di quella signora. E di quella fatina, la bambina aveva solo un’impressione, un’immagine impressa nella memoria: dalla culla l’aveva scorta una volta sola. Si trattava di una figura sfavillante in un cappuccio rosa, che sembrava emanare luce propria. Uno sguardo dolce e premuroso, le aveva posto parole affettuose mentre le toccava la fronte con la mano calda e morbida. E il dolce profumo dei garofani proveniva dalla fata, quel sentore dolce e vanillato che Ermenegilda percepiva nei momenti bui. Sì, Ermenegilda non aveva mai più incontrato la sua Fata Madrina ma era sicura della sua esistenza! Inoltre, la bambina conosceva il posto in cui le leggende narravano abitasse la Fata Madrina: al mare!

Era verso il mare che infatti voleva dirigersi!

Purtroppo la strada per il mare era lunga e, arrivata la sera, Ermenegilda era fin troppo lontana sia dalla sua casetta sia dal mare tanto agognato: goffa com’era continuava a cadere sui sentieri nei boschi, sulle radici dei grandi pini e dei bianchi abeti, sui massi piatti e scivolosi del torrente che seguiva a ritroso. E in tutto questo non si era ancora nemmeno allontanata dalla valle! Senza accorgersene, al posto di scendere e raggiungere la pianura era salita e aveva scalato il pendio.

Aveva camminato tanto, fino ad arrivare alla fine della giornata ad un altopiano su cui si stagliava una ricca locanda in roccia. E ora? La locanda era un ottimo posto per passare la notte, ma lei non aveva più danaro! Come fare?

«Ma come puoi anche solo chiedermi di ospitarti se non hai i soldi con cui ripagarmi?», le rispose la locandiera prima di chiuderle la porta in faccia.  Sconsolata, Ermenegilda sedette su uno dei gradini di pietra del palazzo ed scoppiò in lacrime, almeno fino a quando una donna gentile non uscì dalla casetta di cristallo a fianco della locanda e le rivolse parole pietose.

«Ma come mai una così brava bambina si mette a piangere tutta sola di tardo pomeriggio? Cosa, non hai i soldi per pagare l’alloggio? Beh, se mi raccogli la legna posso darteli io!»

Ad Ermenegilda non sembrava vero: se avesse raccolto una cesta di legna grossa e fine avrebbe ricevuto cinque monete di bronzo! Felice che la fortuna finalmente le irridesse, smise di piangere e ringraziò la gentile signora.
Piena di energie per la nuova speranza che l’era apparsa, la bambina si guardò attorno e vide una fitta pineta a un centinaio di metri dalla locanda, vicino allo strapiombo roccioso. Veloce e attenta, con la cesta di vimini in mano, raggiunse il bosco e fece incetta di legna secca di pino; tornata dalla vecchina, le porse la pesante cesta e sorrise, nonostante le botte che aveva preso sulle radici degli alberi. Dopo averla ringraziata, prese le monete e si pagò la stanzetta nella locanda a fianco. Stanca e sola com’era, mangiò tantissimo: prima un piatto di stufato di cerbiatto e polenta bianca, poi una bella torta di mirtilli. Soddisfatta e satolla, finalmente le venne sonno. Prima di ritirarsi nella stanza che tanto faticosamente si era guadagnata, volle uscire e cedere alla gentile vecchina un pezzo della fetta di mirtilli che le aveva lasciato da parte ma, al chiaro di luna, notò che oltre alla locanda sull’altopiano non c’era altra costruzione; confusa, Ermenegilda andò a dormire per prepararsi alla lunga camminata che l’attendeva.

Fattasi spiegare per bene le indicazioni per il mare dalla locandiera, Ermenegilda il mattino presto partì e si diresse di buona leva verso il mare, nella direzione giusta, questa volta; felice notò che il gattino selvatico cui aveva dedicato molte attenzioni la seguiva, l’aveva sempre seguita fin da quando aveva lasciato la loro casetta, forse. Non essere più sola durante un viaggio tanto grande la rese immensamente felice, accolse tra le braccia il compagno di avventure e stando attenta a dove metteva i piedi -per non inciampare ancora- arrivò in pianura, lontana dalle montagne: per la prima volta in vita sua era uscita dalla valle!

Ora le bastava solo seguire il torrente cristallino che attraversava le cime rocciose delle montagne e attraverso una bellissima cascata si congiungeva a un laghetto e infine al mare salato e sterminato.  Era quasi arrivata, Ermenegilda se lo sentiva! Pure il gattino fremeva e ronfava tra le sue braccia, con le orecchiette morbide che captavano la luce balzante sull’acqua e gli occhi che osservavano il rinfrescante sciabordio del torrente sulle rocce!

Il ruscello li aveva portati davanti a una strettoia di roccia nera.

Ermenegilda notò come il flusso d’acqua improvvisamente si riduceva a un velo che spariva nella fessura di una delle due pareti nere. La bambina, allora, capì che doveva attraversare la gola, ma quando stava per penetrarvi sentì una stranezza: in tasca, uno dei fiorellini scarlatti di sangue stava appassendo! Sconvolta, Ermenegilda si fermò, posò a terra il gattino bianco e nero ed estrasse il fiorellino. Una lacrima le scese lungo la guancia, mentre lo sguardo si posava sui petali del fiore non più scarlatti. Aveva perso il colore rosso! Era successo qualcosa a Rodolfa! Ma cosa? Aveva veramente provato a rapinare la banca ed era stata impiccata? O le avevano mozzato le mani? Spaventata, la bambinella decise di affrettarsi ed entrò nella gola di roccia nera.

Ermenegilda, però, si era sbagliata!

Quella che pensava fosse la gola tra due valli o una strettoia tra due monumenti in pietra nera si era rivelata l’entrata per un autentico labirinto scavato nell’ossidiana! Infatti, davanti a quella che si era rivelata come un’entrata al labirinto non si stagliavano le distese pianeggianti verso il mare ma un’intricata ramificazione di costruzioni e pareti nere, lucide ma rocciose! E quando svoltava, Ermenegilda si trovava sempre davanti ad altri dieci corridoi stretti tra i quali scegliere, oppure in stanzette circolari piccole e opprimenti. Una volta, si era ritrovata in un vicolo cieco e senza accorgersi della parete c’era andata a sbattere con il naso!

Dopo numerose ore di smarrimento e peregrinazioni, con il cielo che iniziava a tingersi di rosa, il gattino iniziò a comportarsi in modo strano: si agitò tanto per scendere dalle braccia della bambina e fischiò nervoso contro un corridoio che svoltava minaccioso alla destra della bambina! Proprio in quel momento dal corridoio maledetto proruppe una terrificante creatura vermiforme! Spaventata dai mille occhi con cui il mostro bramava le sue carni paffute, la bambina si mise a correre con il cuore che le impazzava in petto e il gattino che la seguiva a ruota!  Corse e corse ancora, corse tra le molte salette circolari con le pareti lucide che inesorabili le mostravano le fauci del mostro più vicine a lei per ogni secondo che passava. Corse a perdifiato, anche inciampando e rimettendosi a correre, corse dietro gli angoli di molti corridoi mentre il mostro cercava di ghermirla con i tentacoli delle fauci. Solo quando l’uscita dal labirinto fu visibile, anch’essa un’apertura tra due pareti lisce, Ermenegilda poté sorridere anche se sfinita: con un ultimo sprint lei e il gattino superarono l’agognata uscita dal labirinto.

Insieme caddero nel dirupo al di fuori del labirinto nero e impenetrabile. Subirono un volo spaventoso e lungo, ma almeno si erano lasciati il verme dai mille tentacoli ad osservarli impotente da lontano.

Per fortuna, lei e il gattino erano precipitati dentro a una pozza di acqua salmastra: si trattava della congiunzione tra la cascata al di fuori del labirinto e il mare dal quale i pescatori riempivano le grandi reti a strascico e le gabbiette di rame intrecciato poste sul fondo del mare.

Stanca e provata, Ermenegilda nuotò con il gattino sulle spalle fino alla riva e uscì dal laghetto: al concludersi della giornata di cammino e di striscianti paure, finalmente la bambina era giunta alla grande città sul mare, lo aveva capito dalla lieve brezza marina che aleggiava in quel bellissimo posto! Infatti, non appena si inoltrò fuori dal parco ai piedi del monte di roccia nera e dentro alla prima strada battuta, Ermenegilda si ritrovò dentro a un centro urbano sul mare, costruito su canali e ponticelli.

Felice di essere finalmente giunta alla meta agognata, la bambina si diresse verso il centro, costeggiando uno dei canali: tutti sanno che le Fate Madrine vivono al centro delle città, nella parte più antica e al tempo stesso più splendida, vero? Lo sanno tutti, ma proprio tutti!

Infine, dopo un’oretta scarsa di cammino, con i lampioni che venivano accesi da smilzi ometti vestiti di arancione, eccola là: una reggia interamente in marmo bianco e rifiniture d’oro, costruita sulla collina artificiale al centro della città, sulla vista panoramica del bacino marittimo a pochi passi da essa e dalla piazza. Davanti alla reggia era stato costruito un grande pilastro nero, alto più di dieci metri e scolpito in bassorilievo con i segni raffiguranti lingue sconosciute e straordinarie creature del Cielo. La Fata Madrina doveva essere dentro al palazzo, Ermenegilda ne era certa. Ed essendo il cancello delle basse mura di mattoni viola spalancato, la bambinella sgusciò nel giardino della Fata Madrina e, piena di speranza, entrò finalmente nel portone di cristallo verde.

Il gattino miagolò: un grande evento stava per compiersi, lei lo sapeva!

Ma nella reggia niente era come Ermenegilda si era immaginata! Non c’erano ampie sale ricolme di mobili d’avorio e statue di divinità immortali e illuminate dalle grandi finestre che aveva scorto dalla strada, né maestosi arazzi o pregiati tappeti o gli splendidi affreschi raffiguranti intrichi di garofani e roseti, neppure le scalinate e i corridoi che un edificio con così tanti piani e ali lasciava presagire. C’era solo uno spazio buio, come se entrando nel tramonto dentro a quel palazzo avesse varcato la soglia della landa dei morti. Spaventata, Ermenegilda stringeva il gattino al petto con tutte le forze, fino a quando il micio quasi non la graffiò al volto; allora, scusandosi con lui per la propria sbadataggine e il proprio egoismo, lo pose a terra. Ma si tenne vicina a esso: quel posto la spaventava enormemente! Era tutto avvolto nella nebbia! E nella nebbia Ermenegilda poteva scorgere orripilanti figuri, corpi scuri che aleggiavano sopra al pavimento impegnati a  fissarla con occhi fiammeggianti!

Ermenegilda urlò, si mise a correre a tentoni nel buio fino a quando non trovò una porta, la aprì e se la chiuse a chiave alle spalle: di certo non avrebbe più messo piede in quel posto maledetto, dove gli spettri infestavano l’aria, dove essi potevano sputarle addosso il loro alito di morte sussurrandole le peggiori profezie e maledizioni!

Sola nella stanza, con il gattino bianco e nero che la osservava muto, Ermenegilda trasalì: nella tasca della gonnella la bambina percepì di nuovo l’essiccarsi di un fiore, l’ultimo fiorellino scarlatto di sangue che poteva essiccarsi! Piena di ansie e desiderosa di conferme, affondò la mano nella tasca e ne estrasse quello che doveva essere l’ultimo fiorellino scarlatto rimasto, ma di esso era rimasto solo un filo marrone e secco con attaccati alcuni foglietti di carta scura e screpolata!

Qualcosa era successo pure a Genofrida! Non poteva più aspettare!

Ironia della sorte: la stanza nella quale si era rifugiata Ermenegilda era una semplice biblioteca di piccole dimensioni, senza altre uscite se non quella da cui era entrata. Per trovare quindi la Fata Madrina e salvare le sue sorelle, la bambina inspirò profondamente e, noncurante del cuore che le batteva forte in petto, si girò verso la porta e la spalancò, affacciandosi verso quella che doveva essere la stanza con la nebbia e le creature inquietanti: nient’altro poteva spaventarla ormai!

Tuttavia, quando Ermenegilda rientrò nel luogo che l’aveva terrorizzata, notò con meraviglia che la nebbia e la tenebra erano scomparse. Al loro posto si trovava un campo di grano, con le spighe che ondeggiavano al vento. In mezzo al campo di grano, sopra a una pedana in granito viola, si stagliava una scalinata a chiocciola che si avviluppava su se stessa fino a incontrare il cielo azzurro che rischiarava la scena. E, sempre sulla pedana e davanti alla scalinata impossibile, era posizionata una porta. Quando Ermenegilda si avvicino alla porta, la sua meraviglia crebbe: la porta era di fine legno chiaro, forse di rovere bianco, ne aveva viste molte giù in paese a casa della sua amica Claretta, e incastonata nella porta si trovava una vetrata verde e rosa. Oltre quella vetrata, Ermenegilda poteva vedere una donna bellissima in abiti petalosi ricamare docile e gentile; tuttavia, oltre la porta, si stagliava la scala a chiocciola verso il cielo e, oltre la scala a chiocciola verso il cielo, Ermenegilda poteva scorgere il campo di grano. Poteva odorare il profumo del frumento, era sicura di essere in mezzo alle piante, in pianura. Con una porta magica davanti a una scalinata impossibile.

La bambina si portò le dita agli occhi e se li stropicciò: forse stava sognando! Ma quando li riaprì, si trovava ancora là, in mezzo al campo di grano. Che stava succedendo?

«Ehi, brava bambina, sono qui!», proruppe improvvisamente una vocina. Lei non capendo da dove potesse provenire si guardò intorno spaesata: non c’era nessuno là con lei, a parte il suo gattino! «Sono qui! In basso, mi vedi? Ecco, brava, sono qui. Sono la chiave che apre la porta per le stanze della Fata Madrina! Se mi acchiapperai potrai accedere al tuo consulto. Prendimi!» e come per magia la chiave d’argento si animò e iniziò a salire la spirale.

Ermenegilda, confusa ma risoluta a catturare la chiave d’argento, salì la pedana di granito viola, superò la porta di rovere bianco per le stanze della Fata Madrina e si slanciò sulla scala a chiocciola che saliva ripida verso il cielo: doveva raggiungere la chiave parlante!

La povera infelice cercava di raggiungerla, ma la chiave era veloce, lei era lenta e incespicava su quei gradini così lisci e inclinati, le sembrava ogni volta di stare per cadere all’indietro, e il corrimano era troppo largo per le sue mani sì paffute ma piccine, non sarebbe riuscita ad afferrarlo se fosse caduta! E così, dopo qualche minuto di rincorsa, Ermenegilda proprio come aveva temuto mancò il gradino successivo e si sbilanciò verso il terreno, rotolando giù per le scale.

Batté la testa e svenne.

«Una così brava bambina non dovrebbe stare qui a farsi male: dovrebbe essere a scuola o a giocare, non credi?»
Una voce gentile e delicata la svegliò, Ermenegilda si trovava in un letto di piume di pavone e oca, con il gattino che dormiva beatamente al suo fianco. Le stava parlando una donna estremamente bella, aveva gli occhi come i pini della valle in cui Ermenegilda era cresciuta, e i lunghi capelli biondi erano intrecciati con mille garofani blu.
«Ma come ci sono arrivata qui, gentile signora?», chiese allora Ermenegilda, non sentendosi ancora pronta a rispondere alla domanda della donna.
«Il tuo gattino. Questo micetto ti si è affezionato moltissimo e devo dire che ha sempre avuto buon gusto! Sai che Rodolfa è stata beccata dalle guardie a rubare tre lingotti alla banca? E Genofrida dopo essere stata cacciata dalla corte e messa in orfanotrofio, per il suo bene intendiamoci, vista la sua posizione, si era messa a fare l’incendiaria! Dopo che l’avevano ospitata con tanto amore e tanta pazienza! Proprio questa mattina. Mentre tu, sbadata sì ma con un gran cuore, hai perseguito la tua causa e quello che credevi giusto nel modo migliore a cui potevi aspirare! Sono veramente colpita, mi hai colpita, Ermenegilda. Questo bel micetto poteva lasciarti ruzzolare giù per le scale, ma invece ha preferito salvarti e prendere la chiave al posto tuo. Lo hai impressionato, e io mando i gatti a controllare tutte le mie protette!»
La donna sorrise, dalla poltrona sulla quale era seduta.

Ermenegilda a quell’ultima informazione guardò stupefatta la donna: era lei la Fata Madrina! E sapeva tutto fin dall’inizio! Certo, un po’ era orgogliosa di come si era complimentata per come aveva trattato il gattino, ma quella donna per quanto gentile sapeva tutto e non aveva fatto nulla! Ed Ermenegilda questo non lo poteva sopportare, non dopo quello che aveva subito in quei due giorni. «Come mai non ha mai fatto nulla? I nostri genitori sono stati portati via, le mie sorelle sono state punite per qualcosa di cui non hanno colpa! Volevamo solo cercare di salvare mamma e papà!»
La Fata Madrina sorrise, anche se il suo sguardo si indurì. «Io non potevo fare nulla. I vostri genitori si erano impoveriti per conto loro, sono stata io a mandare loro le mie ancelle accompagnate da una guardia: vi stavano per vendere per ripagare i debiti! E poi volevo vedere fin dove vi sareste spinte, conoscere la vostra vera natura.» «E qual è la risposta?», chiese subito laconica Ermenegilda.
«Tu sei un capolavoro. Anzi, tieni questi, come ricompensa!»

Ermenegilda cadde in un sonno profondo.

Tanto tempo fa, sulla sponda dorata di un lago sereno, abitava una famigliola di pescatori. Questa famigliola era composta dai due genitori e tre sorelline: Rodolfa, Genofrida ed Ermenegilda. Se Rodolfa e Genofrida erano molto graziose e si muovevano come sorrette dagli angeli, Ermenegilda invece era goffa ma dolce: trattava sempre con le massime cure il gattino selvatico che era solito appostarsi su uno dei rami del loro abete. Tutti andavano d’amore e d’accordo in quella famiglia, ma un male in verità minacciava di romperla in mille pezzi: la povertà! Quell’anno le trote di cui si nutriva e con le quali sopravviveva la famiglia di pescatori erano molte meno degli anni precedenti e lentamente i debiti avevano invaso le tasche dei due poveri genitori. Loro erano sempre allegri e amorevoli con le loro tre figlie, non volevano interrompere i loro felici pomeriggi e la scuola era importantissima, lo sapevano bene! Così, facevano buon viso a cattivo gioco.

 Almeno fino a quando Ermenegilda scese sola dalla cameretta da letto per parlare con la sua mamma e il suo papà.

Girava a piedi scalzi sul ruvido pavimento di pietra della loro bella casetta, con la sua camicetta da notte tutta rossa. Teneva in mano due grandissime corna da renna, di quelle renne grandi come quelle di Babbo Natale, ma solo tutte sfavillanti e ricoperte di perle e pietre preziose; su un corno c’era scritto: “Proprietà di Ermenegilda”, scolpito così a fondo nell’osso e ricoperto da così tante pietre che era ovviamente sua, quella proprietà straordinaria!
Ermenegilda disse solamente «Tenete, ve le regalo. Così restiamo una famiglia felice, no?», li abbracciò e tornò di sopra, a giocare con le sue sorelle: Rodolfa e Genofrida stavano giocando alle mogli e il gattino faceva lo sposo a turno di ciascuna!

E così, le tre sorelline vissero felici e contente; almeno fino a quando a scuola non ci furono gli esami! Ma quella è un’altra storia. Ciao!

Racconto derivativo: Una scatola molto strana

Si trattava di una specie di scatola color bronzo, lunga non più di mezzo metro e alta e larga circa trenta centimetri. La superficie sembrava incisa con una serie di motivi geometrici, ma osservandoli più da vicino si intuiva che erano in realtà ingranaggi o altre componenti meccaniche. Non presentava un coperchio o anche solo un qualche indizio della presenza di cerniere, perciò non sembrava fosse stata pensata per aprirsi, ma su di uno dei lati erano presenti una serie di piccoli pulsanti colorati che parevano una serratura, oppure una tastiera di controllo. Appoggiandovi un orecchio, si riusciva a sentire un ticchettio metallico provenire dall’interno.

Cosa poteva essere? Arthur non aveva mai visto niente di simile. Era anziano, ma nella sua lunga vita non aveva mai incontrato nulla di simile. L’aveva trovata nel magazzino abbandonato, al largo di Londra; una volta quel posto era il capannone di una grande ditta di lampade ad olio, ma l’inondazione del 1812 aveva completamente allagato la pianura, trasformandola in una palude inabitabile. Perfino attraversarla era difficile, se non impossibile!

Aveva raggiunto il magazzino a bordo della sua bicicletta a vapore, un marchingegno che univa la salubrità dell’attività ginnica -indispensabile per il suo cuore- alla comodità del volo: la catena mossa dai pedali della bici alzava e abbassava la leva per l’immissione del vapore nella camera, la cui pressione sbatteva le ali di metallo applicate alla bici. La sua bici volante a vapore con un piccolo cestino per collezionare i suoi tesori. Era troppo povero per comprarsi quei gingilli tanto utili, quindi quando poteva si divertiva a prenderli dagli edifici in rovina, da coloro tanto sciagurati da lasciarli in giro.

Comunque, dentro all’edificio di alluminio non aveva trovato solo quella strana scatola di bronzo, ma tante altre cose. Piccoli robot a molla che aiutavano con la spinta giusta i lavoratori a trasportare i carichi più leggeri. Un sistema di illuminazione basato sul mulino, reso inutilizzabile dall’inondazione. Grandi bracci meccanici a vapore per l’inscatolamento delle lampade ad olio. E tante altre diavolerie.

Ad Arthur quel posto era piaciuto tantissimo.

Certo, la palude non era attraversabile a piedi o in barca per le radici e i tronchi caduti e le sanguisughe giganti non rendevano di certo più facile il transito, ma con una bella bici volante (o una mongolfiera a vapore, se fosse riuscito a metterci le mani sopra) era possibile raggiungere quel posto così simpatico seppur in rovina.

Ma era tardi, ora, l’orologio a pendolo suonava le nove di sera. Arthur coprì con un telo il suo tesoro appena trovato e lo lasciò vicino al letto, con gli altri recuperati negli anni. Si rimise il braccio meccanico, una banda di metallo resa mobile con una serie di ingranaggi all’altezza della spalla, del gomito e del polso, e scese: sua figlia aveva preparato la zuppa di carote e lui moriva dalla fame!

Fonte originale: qui

Fiaba originale: La simpatica vecchina dei boschi

In un inverno freddo e innevato molto indietro nel tempo, una ragazza dalle guance tutte rosse e il nasino gelato si era persa di notte nelle grandi foreste di pini e abeti bianchi a nord della sua città, Letitia, e temendo di morire assiderata cercava di riscaldarsi stringendosi sulle spalle la sua mantella scarlatta. La neve però continuava a scendere e già le arrivava fino al calcagno, minacciando di superare lo stivale in pelle di alce e bagnare le calde calze verdi e arancioni: se non avesse trovato un riparo in fretta, non avrebbe di certo superato la nottata! Almeno la dolce luna le indicava il cammino, illuminando il soffice pavimento bianco su cui lei poteva così posare al sicuro i piedi, almeno quando i sinistri e scheletrici pilastri neri non la oscuravano. Infreddolita, con gli occhi arrossati e il naso sempre gocciolante, alla bella Anna dalle trecce ramate quasi non parve vero quando in lontananza vide il rossore del fuoco crepitante dentro a una grande casa nel mezzo della foresta.

Anna corse a bussare entusiasta, con i suoi lunghi respiri intervallati da grandi nubi. Quando vide un’arzilla vecchietta aprirle la porta, Anna non poté non sorridere di lieto sollievo e la ringraziò quando la donna la invitò a restare per la notte, proprio quando ormai i lupi in lontananza stavano iniziando a farsi sentire.

La casa era molto accogliente ma al tempo stesso soffocante, con grandi tappeti e tendaggi pesanti che risparmiavano dal freddo che permeava l’ambiente esterno ma che davano quasi un’idea di claustrofobia. Grande e scura, a illuminare l’ambiente del salotto c’era solo un camino acceso dall’altra parte della stanza nel quale un bel fuocherello crepitava donando il suo calore alla povera Anna che con le sue guance tutte rosse e il pallore della pelle sembrava più morta che viva. In centro al salotto c’erano un tavolino e alcune dure sedie attorno ad esso; su di una sedia si sedette l’anziana signora e sull’altra si sedette la ragazza sotto cortese richiesta dell’ospite.

Quando Anna si fu seduta, l’arzilla vecchina agilmente si rialzò e le tolse gentilmente la mantellina rossa; quindi la appese sull’appendiabiti ricavati da un bel palco di corna posto a fianco della porta, dietro alla ragazza. Soddisfatta, si sedette e sorrise alla ospite.

«Ma dimmi, cosa ci fa una così deliziosa ragazza tutta sola nella foresta?», chiese gentilmente la vecchia.

Anna scosse la testa ritraendosi contro lo schienale della sedia, si portò le mani a coprirsi il viso e pianse.

«Su, non piangere cara. Se non te la senti, ne parleremo più tardi…»

«No, tranquilla, sto bene. È che… Tre giorni fa era penetrato nella foresta il mio promesso sposo per cercare legna da ardere, ma non è più tornato. Sa, ho questa sensazione: penso gli sia capitato qualcosa!»

L’anziana signora le si avvicinò e strinse le proprie grinzose mani attorno a quelle morbide e giovani di Anna, sussurrandole «Tranquilla, sono sicura che il tuo promesso sposo ha solo avuto un contrattempo. Facciamo così, rimani qui almeno per cena in attesa che la nevicata finisca e poi potrai decidere se restare per la notte o tornare a casa tua. So esattamente in che direzione è Letitia, non manca tanto!»; quindi, la vecchia si alzò e si diresse in una sala attigua al salotto, finora invisibile a causa della porta chiusa nella penombra della casa e vi stette per lunghi minuti. Anna sbatté le palpebre pesanti: come aveva fatto a non notarla? Era pure delimitata da due grandi vasi, dai quali usciva una qualche fragranza odorosa molto forte; lavanda forse. Un buon profumo che rasserenava la situazione. Quando tornò dalla giovane, la vecchia sorrideva con un gran sorriso reso minaccioso dalla luce del fuoco, luce che accentuava ogni singola ruga e il lungo naso adunco. «Bene, ho acceso il fuoco, tra poco metterò il pentolone sul fuoco per la cena. Resti per cena, presumo: la neve scende ancora. Nel frattempo, vuoi che ti racconti una fiaba?»

Anna alla domanda della donna si sorprese, ma pensando di non avere nient’altro di meglio da fare acconsentì. Quindi cominciò a giocherellare con le trecce mentre ascoltava la narratrice.

«Tanto tempo fa, in una casupola di contadini viveva il piccolo Nanni con i suoi fratelli e sorelle e i genitori. Nanni era un discolo, un bambino capriccioso e viziato che non ascoltava mai nessuno, combinava solo marachelle e non passava un giorno che non li facesse dannare. Un giorno la mamma era così disperata che invocò l’Uomo Nero, un oscuro figuro nero dalla cima dei capelli fino alle dita dei piedi; perfino i bulbi oculari e i denti e la lingua erano tutti neri. Lo presentò al figlio e gli disse che se non si fosse comportato bene almeno fino a Natale, l’Uomo Nero se lo sarebbe preso e portato via per sempre; Nanni pianse per molte ore quando quel terribile figuro lo guardò leccandosi le labbra perché una sola cosa non era nera dell’Uomo Nero: il sangue fresco che gli colava dalla bocca! Così Nanni fece il bravo bambino e ubbidì ai genitori per molti mesi, ma ai primi fiocchi di neve le cattive abitudini tornarono a governarlo. Non voleva più aiutare la mamma a pulire la casa o il babbo con le mucche; voleva solo giocare con le sorelline e i fratellini, molte volte rompendo i vasi e liberando le galline dal pollaio. Fu due giorni prima di Natale, nella notte, che l’Uomo Nero mantenne la sua promessa: furtivo entrò nella cameretta del bambino, lo chiuse in un grande sacco e se lo portò dentro al proprio castello nel cuore della foresta più fitta e spaventosa. Lì con due enormi aghi gli cavò gli occhi, con una lunga pinza gli strappò la lingua e con un tagliente coltello da macello gli tagliò via dal corpo tutta la carne; tutto ciò accadde mentre Nanni era ancora vivo, almeno all’inizio ovviamente. Così, poi, l’Uomo Nero poté banchettare con le carni del discolo la sera di Natale e poté addobbare il proprio Albero natalizio con il teschio e le ossicine, mentre la calma e l’amore regnava nella famiglia del discolo Nanni, che per magia lo aveva dimenticato. Fine.»

Mentre l’anziana donna concluso il racconto era scoppiata in una sonora risata, la giovane Anna la guardò mortificata; sapeva benissimo che le fiabe avevano una morale e servivano a insegnare ai bambini di comportarsi bene, ma quella era terribile! Quindi per cortesia sorrise brevemente all’anziana ospite e per non pensarci si alzò e si avvicinò al fuoco, per guardarlo crepitare e riscaldarsi bene.

«Senti…», le fece la vecchia mentre si alzava e si dirigeva in cucina, «Ora il fuoco sarà pronto, ci metto sopra il pentolone per far bollire l’acqua. Perché quando torno non mi canti una bella canzone natalizia? Ormai mancano pochi giorni a Natale e visto che nevica ancora potresti allietarci gli spiriti. Che ne dici?»

Anna non ebbe il tempo di rispondere, perché la sua ospite era già sparita dietro alla porta della cucina prontamente richiusa. Invece, curiosò sul ripiano sopra al camino e notò una serie di piccoli oggettini di vario valore: qualche ossicino levigato, uno o due anelli, un coltello da caccia e alcuni borselli in cuoio. Ne stava per aprire uno quando la donna tornò e le chiese di cantare; lei allora si sistemò il vestito di lana verde e scelse una bella canzone che parlava di due innamorati separati:

«Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

Natale è alle porte, i regali sono fatti.

Natale è alle porte, le vivande sono pronte.

Manchi solo tu, manchi solo tu,

Dove sei? Perché non qui con me?

Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

La neve scende già, Natale si farà

Ma che dico mai, senza di te non lo è.

Manchi solo tu, manchi solo tu.

Dove sei? Perché non qui con me!

Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

Io ti manco sì lo so, ma non sei qui però!

Tu mi manchi questo sì, ma perché non sei qui!

Un Natale, senza di te, io ti penso,

Arriva presto per me!

Natale è alle porte, i regali sono fatti.

Natale è alle porte, le vivande sono pronte.

Manchi solo tu, manchi solo tu:

Natale per me sei solo tu!»

Anna aveva cantato dolcemente, con una voce celestiale, perché pensava al suo Alfredo smarrito da giorni nelle foreste e di cui non aveva più sentito notizie. Quando l’anziana donna proruppe in un plauso per l’esibizione, la ragazza prese le balze che contornavano il lembo con il quale il vestito verde finiva e si protrasse in un inchino soddisfatto ma malinconico: le si era nuovamente dipinto il sorriso sul bel volto, anche se gli occhi erano tornati lucidi. Quindi tornò a sedersi e respirò lentamente, per quietarsi.

«Hai una voce stupenda, devi essere molto dolce!», le fece la vecchia offrendole una tazza di tè, che si era portata dalla cucina.

Anna arrossì, bevendo a piccoli sorsi la calda bevanda. «Dovrebbe sentire mia sorella, lei canta nel coro di Letitia. Sembra un angelo! Quindi… Manca molto alla cena? Inizio ad avere un leggero appetito.»

L’anziana sorrise e ribatté che mancava pochissimo, ma che nel frattempo le serviva una mano per portare cinque casse molto pesanti dalla cantina al salotto; «La cantina si trova dopo una scala dalla mia camera da letto. Lo so, chi ha progettato questa casa non doveva essere un gran architetto!», aggiunse ridendo. Anna accettò timidamente e le due scesero a prenderle; ci misero un po’, soprattutto perché le cinque casse erano effettivamente molto pesanti perfino per Anna, una fanciulla nel fiore degli anni. Ma riuscirono a portarle in salotto, dove le voleva la vecchia.

Anna dunque soddisfatta del lavoro si sedette, evidentemente affaticata mentre l’arzilla vecchietta sorrideva sempre più arzilla.

«Wow!», mormorò Anna sentendosi la fronte come per capire se avesse la febbre, «Sono proprio stanca… Mi sta venendo una stanchezza, un sonno, incredibile. Devono essere le casse. Lei, lei non è stanca signora?»

L’anziana donna le si avvicinò e si sedette sulla sedia accanto a quella della ragazza. La stava osservando.

Anna non capiva, quindi si ripeté: «Lei non è stanca, signora? Forse ho la febbre, o forse sono solo stanca, tutto questo calore dopo il gelo della foresta. No?»

La donna ora aveva uno sguardo mortificato, rabbioso, severo. Lentamente si alzò incurvandosi minacciosa verso Anna e le tirò uno schiaffo in pieno volto: «Piccola ingrata. Ti ho salvata, ti ho aperto la porta di casa mia, ti ho riscaldata e perfino intrattenuta. E tu non mi hai nemmeno mai chiesto come mi chiamassi. Una piccola serpe, come tutti gli altri. Una maiala, una scrofa. E da scrofa sarai trattata: bollita nel mio pentolone!»

Anna, che all’inizio non capiva, dal terrore raccolse tutte le forze e spinse via la donna facendola sbattere contro il tavolino. Prontamente si avventò verso la porta principale della casa dalla quale era entrata ma la scoprì chiusa a chiave (quando era stata chiusa?) e vedendo minacciosa la sconosciuta che le si avvicinava, barcollando si diresse verso la cucina. Sempre più stanca e tremante.

Non lo avesse mai fatto.

Quella cucina era il luogo degli orrori della casa! Appese alle pareti su ganci da macellaio stavano gambe umane secche e rigide, sulle mensole lungo il muro a destra si trovavano numerosi strumenti di tortura e cucina intrisi di sangue essiccato, le tendine delle finestre erano in pelle umana mentre sul tavolo c’era un cadavere con le interiora esposte e i polmoni rimossi e il viso scorticato! «Alfredo, no!», urlò Anna riconoscendo i capelli corvini e ricci e la pelle olivastra del proprio promesso sposo. Isterica, si voltò alla propria sinistra e indietreggiò urlando: l’ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu l’enorme calderone al centro della sala nel quale l’acqua ribolliva minacciando di bagnare l’immenso falò ai piedi di esso; la strega la raggiunse e le sussurrò «Fossi in te morrei ora nel sonno, dicono non sia piacevole essere bolliti vivi!» per poi scoppiare a ridere crudelmente.

Così, a Letitia la giornata di Natale non fu segnata dalle risa gioiose dei bambini che pattinavano sul lago ghiacciato o dai deliziosi profumi uscenti dai salotti addobbati a festa per il cenone in famiglia. No, altre due persone erano scomparse nel fitto bosco e un velo di terrore e malfidenza era calato sulla cittadina. Solo nel bosco innevato sinistre risate risuonavano, mentre un’arzilla vecchina si preparava il proprio Presepe personale, unico nel suo genere: una moltitudine di bambole, bambolotti e bamboline a cui erano stati cuciti i visi strappati ai cadaveri degli sciagurati che erano andati a farle visita; e quell’anno finalmente l’arzilla vecchina aveva pure trovato la Maria perfetta!

Buon Natale, amici miei, state solo attenti alle foreste e alle vecchine ospitali o loro staranno attente a voi! Buon Natale e felice anno nuovo!

Racconto originale: Un cazzaccio

“Cazzo, cazzo, CAZZO!”

Come ogni giorno alle otto di sera, Zusistri si svegliò in ritardo con la quinta sveglia che strillava la sua pigrizia. E di pigrizia ne aveva molta: una pelle sudata e unta, due tettine che avrebbero potuto competere per Miss Maglietta Bagnata e una pancia smisurata, secondo le voci in proporzione inversa rispetto al cazzettino dell’omone. Una bella persona, a modo e sempre gentile.
E così, come ogni giorno Zusistri dovette dire addio alla bella bionda, che lo desiderava e lo cercava, e svegliarsi nelle lenzuola umide di sudore, con il cuore a mille e la consapevolezza di essere in ritardo per il lavoro.

Subito disceso dal lettone sfondato, Zusistri cercò le sue pantofole e quasi schiantò il capo pelato contro il mobiletto al fianco del letto; fortuitamente evitato l’impatto, trovò le pantofole sul tappetino, le indossò e si catapultò giù per le scale in cucina.

Caffè. Brioche alla marmellata. Pane imburrato e il giornale del mattino, di cui leggeva solo il titolone della prima pagina; mammina come al solito era stata premurosa, il suo bambinone non poteva trovare nulla fuori posto. Tovagliolo per pulirsi sommariamente la bocca lercia e infine in bagno.

Si lavava i denti con uno spazzolino elettrico, anche se le pile erano stanche da settimane: troppa fatica scendere in cantina per risalire col bottino elettrochimico, e la mamma si rifiutava di farlo per lui! Zusistri si lavava i denti con uno spazzolino elettrico senza energia per funzionare e con spatole troppo piccole per un lavaggio manuale appropriato. Ma almeno si lavava i denti, si rasava pure la barba con il rasoio elettrico ogni giorno: almeno, quello era attaccato alla presa del muro e mai esauriva le batterie. Ecco, quando non faceva a tempo non si lavava le ascelle o il petto rigoglioso, ma, tanto, quali donne lo avrebbero sniffato con fare malizioso?

E poi, si vestì. Era sempre difficile indossare quelle magliettone larghe, sformate, doveva alzare le braccia! Ma almeno in camera poteva guardare i suoi cazzi preferiti.

E che cazzi!

Il quadro più grande, posto di fronte al letto, raffigurava un cazzo di cane. Adorava quella pianta: le bacche erano di un bell’arancio sgargiante, disposte in fila a comporre una piccola pannocchia che dava mais arancione. Non era una comune rosa rossa o il tulipano che puoi trovare nelle distese rosse al fianco dei binari in aperta campagna. Era un fiore ombroso e capace di vivere pure a centinaia di metri di altitudine! E aveva pure un altro nome comune: pan di serpe. Pane, quello che Zusistri adorava divorare guardando L’isola dei famosi. Sacchi su sacchi in una sola serata.

Al fianco della cassettiera, invece, si trovava la raffigurazione del cazzo di re. Quanto avrebbe voluto tenere quel pesce in casa, in acquario magari! Sapeva che si poteva tenere in acquario, lo aveva visto su Instagram! Un bell’acquario dalle luci sgargianti per esaltare le bellissime squame del pesce, quella stupenda linea centrale di colore arancione… Non capiva perché mamma non volesse concederglielo nella cameretta, non aveva nemmeno grandi dimensioni! Ma tanto, sapeva che non lo avrebbe mai fatto, il tutto avrebbe comportato fin troppo impegno per un cazzaccio come lui.

E ultimo ma non per importanza, sopra alla porta della camera da letto aveva appeso una foto del cazzo di mare che gli aveva regalato un suo amico. Genghindele. Lui sì che era un uomo: tante donne, un lavoro ben remunerato, una vita perfetta coronata da un corpo scolpito dalle ore in palestra e dai viaggi in giro per il mondo. Quel pesce lo aveva avvistato nell’Oceano Pacifico, sul fondale. Ore di sub e mille foto, di cui una regalata al suo vecchio amico sempre a casa davanti alla televisione. Genghindele era un vero amico, gli aveva dato lui la soffiata del lavoro! E la foto dell’oloturia stava benissimo sopra alla porta, quella sabbia così grigia e quel mare così blu si stagliavano perfettamente contro la parete di piastrelle marroni.

Zusistri li osservava soddisfatto, tutti quei cazzi appesi alle pareti. Ora era pronto per andare a lavorare. Tuttavia, osservò la porta d’ingresso, infine rivolse lo sguardo al letto.

«Sticazzi!»

Si sarebbe dato malato. Era proprio un cazzaccio.

Fanfiction: IL BALLO DELLA MORTE ROSSA

«Quindi questo abito mi permetterà di confondere il mio corpo tra quegli altri della gente?»

«Beh, è un vestito, sì. Con la maschera e il fondotinta passerai inosservata. Queste in allegato sono le planimetrie della magione a inizio secolo, se c’è un caveau deve essere ai piani inferiori. Maa… Tutto questo per un fossile?»

«Sempre. La mia sorella non è morta, sta solo dormendo in un sonno di roccia e io la sveglierò!»

«Ok, buona fortuna. Harleene arriverà a mezzanotte, come d’accordo. Ricordati di prendere anche i gioielli esposti, a noi piacciono quelli! Buona fortuna!»

«Mi conosci, non ho bisogno di fortuna in mezzo ai tuoi simili. Grazie, invece.»


Era un’afosa serata di Giugno nella Magione Frankhlyn, una delle ville più antiche di tutta la metropoli. Una grande festa in maschera era stata proclamata dall’ultimo scapolo d’oro dell’importante dinastia e tutte le persone più in vista erano accorse per la celebrazione.

Nessuno avrebbe fatto caso a lei, come donna. Tutti si sarebbero soffermati sulla maschera da Morte Rossa, i più depravati sulle mammelle abbondanti; nessuno avrebbe riconosciuto la sua voce, la sua pelle, la sua natura. La maschera era veneziana, rubata per lei da un marinaio incantato; coprendole il volto fino alle labbra carnose e gli occhi gialli con un velo di pizzo, quella maschera era il volto tumefatto di un appestato, decorato con fibre d’oro e lunghe penne rosse; la lunga chioma fulva era lasciata libera di frusciare sulle spalle nude, lungo il costato.
Per quell’occasione aveva indossato un abito regalatole dalla sua amica, l’umana dalle nove vite. Uno splendido abito da ballo scarlatto aderente lungo il busto e le esili braccia e che esplodeva lungo i fianchi in un’ampia gonna a campana a pois rossi, con una generosa apertura in mezzo al seno che riusciva a malapena a contenere il decolleté generoso: quella sera, sarebbe stata la dea di quelle bestiole a sangue caldo.

Pur non piacendole l’idea di nascondere con il trucco la propria pelle, giudicato anormale da quelle creature rosee, e di indossare decoramenti tanto insulsi, non aveva avuto dubbi: il richiamo di quella povera sorella indifesa, esposta al pubblico ludibrio, era troppo disperato per non accoglierlo.

Come lo aveva percepito, era accorsa a tendere la sua trappola su tutte le prede necessarie al completamento del piano. E tutto era andato come previsto.

La donna, nascosta la propria identità dalla grande maschera, sporse la testa all’infuori della limousine e con una cascata di onde rosse ne uscì dalla portiera aperta. Squadrò l’usciere e si voltò verso la limousine, aspettando che il suo accompagnatore la raggiungesse.
Sapeva che doveva aspettare: lo aveva scelto anziano, anziano e stupido, anziano e senza nessuno che lo potesse salvare. Lo aveva scelto perché quell’uomo anziano risultava tra gli invitati al ballo in maschera, lo aveva scelto perché stanco com’era dalla vita, aveva resistito poco all’odore della donna; era bastato un saluto da parte di lei e quell’uomo, che aveva creato la propria fortuna dal nulla con orgoglio e sagacia, aveva rinnegato la propria umanità diventando il suo burattino.
Ora, lentamente, quello stupido uomo stava scendendo dalla sua limousine con l’invito in mano, andando incontro inconsapevole alla morte. La Morte Rossa sorrise trionfante mentre lo raggiungeva a metà strada.

La Morte Rossa si fermò in mezzo al viale a farsi ammirare, con tutte le altre persone venivano rapite nei sensi dal dolce profumo che si levava dalla pelle di lei. Poi riprese a camminare, sempre tenendo a braccetto il suo anziano accompagnatore, lungo la fastosa scalinata marmorea nella calca di ricchi snob.

L’aria era frizzante, per la Morte Rossa. Sotto la maschera, la donna poteva sentire come le piante del parco percepissero la sua presenza, sentiva la terra respirare di un lento e lungo pulsare mentre le radici le si avvicinavano e le fronde frusciavano sussurrando il suo nome. Quello che circondava la grande villa era uno dei giardini con gli alberi più antichi, faggi e querce perlopiù; ma le siepi e gli svariati tipi di fiori abbondavano in quel piccolo paradiso dei giardinieri. Per lei invece era la morte della natura, una ragione in più per uccidere quel sacco di carne: tutte quelle creature erano ostacolate nella loro crescita, subendo amputazioni e sfoltimento del loro essenziale manto verde!

Avrebbe salvato pure loro, un giorno. Ma non quel giorno: la donna scelse di non compromettere la missione e arrivata al grande portone d’ingresso, si guardò attorno soddisfatta rimirando le squisite fattezze della hall: alla fine, il primo dei suoi sandali vertiginosi fece contatto con il mosaico dell’atrio, era dentro.
Lei e il vecchio uomo assieme ad altri invitati arrivati più o meno come loro furono guidati nella grande sala da ballo, agghindata con i tendaggi più sfarzosi. Un’orchestra stava eseguendo una melodia a un lato della stanza, dall’altra erano situati i camerieri con i tavoli del buffet; al centro c’era la pista da ballo per le coppie, sotto a uno splendido candelabro di cristallo.

Come la donna dalla maschera mortifera osservò il mondo lussuoso di anziani attorno a lei, notò che il costume che le aveva dato l’amica di carne era quanto mai azzeccato: chiunque era abbindato a festa, nascondendo il viso dietro a una maschera. Uccelli, animali di vario tipo, semplici mascherine che coprivano gli occhi, complicati copricapi legati sotto al mento, imitazioni di personaggi e oggetti della cultura popolare. Gli uomini indossavano le maschere come unico ornamento fantasioso sopra ai frac e agli abiti da sera, ma le donne invece si erano sbizzarrite nella scelta di quale meraviglia indossare: non solo maschere elaborate nei dettagli e nei materiali, ma anche un tripudio di abiti da sera e gioielli!

Un invitato in particolare attirò l’attenzione della Morte Rossa. Era un prestante topino di campagna, con il corpo più strabiliante che la donna avesse notato quella sera.
Abbandonò il vecchio, lasciandolo al suo destino: massimo trenta minuti, il veleno avrebbe fatto effetto, lasciandolo in una pozza di carne liquefatta e sangue ribollito sul pavimento.

Era tempo di divertirsi prima di pensare all’ospite: era a una festa, e di sicuro il cavaliere a cui si era interessata era un bello che con lei avrebbe ballato.

Con incedere lento e sensuale, attenta a mostrare ogni curva umana che il suo corpo anormale era riuscito a mantenere, si avvicinò all’uomo. L’essere fatale indossava una maschera che mostrava solo le labbra carnose e il mento, lui invece una maschera di stoffa argentea molto sottile, ampliata nell’immagine del topo con il trucco. Erano entrambi molto affascinanti. Lui aveva gli occhi azzurri e uno sguardo -da quel poco che si poteva vedere- da felino, abbellito da un mento forte e una folta chioma scura di capelli lisci: altro che topo, quell’uomo era un vero leone!

«Mi concedi questo ballo, mio bel topino?», fece lei offrendogli la mano. Lui accettò senza nemmeno pensarci.

Fi in quel momento, quando lui si disse interessato, che la Morte Rossa si diresse al centro della pista, dove lo aspettò in mezzo alle altre coppie danzanti.

Silente e sinuosa, si stagliava nella folla come un albero centenario in un campo di fiori selvatici. Vertiginosi vortici di gonne, frac e ornamenti si muovevano attorno a lei, come foglie sospinte nel vento intorno alla betulla frusciante. Lei stava ferma, dolce nella fragranza ma altera nell’aspetto, in attesa del suo leonesco cavaliere.

Quando i due presero a danzare il loro tango, divennero il sole della galassia di ospiti che si fermarono ad osservarli, accerchiandoli con i loro sguardi rapiti.
Lei era alta e l’abito rosso mostrava le lunghe gambe dalla gonna e le mammelle prosperose davanti; ma lui era molto più alto di lei, la dominava con i gelidi occhi azzurri, rapito dall’odore che proveniva dal caldo corpo femminile. Un tango. Uno dei balli più sensuali e intimi, in cui entrambi mostrarono la forza della passione danzando, lei con un gioco di gambe spettacolare e una passione senza eguali, lui stringendole i fianchi e scuotendole la schiena con una forza che tutta la prendeva, stringendola a sé in un abbraccio di passione. Una coppia di fuoco, con la lunga cascata di ricchi che si muoveva senza sosta come un grande serpente che inghiottiva le menti di tutti quelli presenti, ma senza fretta: nessuno poteva staccare gli occhi da lei.
Era la loro dea.
E quando il tango terminò, i due danzatori restarono avvinghiati in un abbraccio appassionato, sotto agli occhi ammaliati dei presenti. Era calda quella serata, in quella stanza il calore animale era condensato in grandi gocce di sudore e passione sul volto nascosto dell’uomo. Lei sorrideva, compiaciuta della reazione che scatenava in quelle stupide bestiole.
Mentre silenziosa faceva scendere la mano di rosso guantata dalle larghe spalle lungo il fianco scolpito fino all’inguine dell’uomo, lui provò a baciarla. Lei rise. E si distolse: «No, Bruce, non sei tu la preda che questa femme fatale desidera. Vai, ti libero dal giogo!»
Lo cacciò via, a cuccia: era il momento di agire. Disperato, l’uomo si ritirò a fumare in giardino con un’espressione disperata sul volto mentre lei si disperdeva nella folla; la calca perse interesse in lei e tornò a dialogare o a danzare come prima che ella entrasse nella pista da ballo.

La Morte Rossa si trovava a quella festa per un uomo, il proprietario della magione, il rapitore di sua sorella dormiente nel sonno di roccia. E fu da lui che quindi andò, con una coppa di champagne in mano. Corretto, ovviamente.

«Buonasera, mio buon ospite.», ella sussurrò offrendogli un calice di champagne, «Una festa superba!»

Dopo un saluto formale alla misteriosa invitata, John Frankhlyn osservò prima la maschera di grandi piaghe e tormenti, poi abbassò lo sguardo sui grandi seni quasi scoperti, deglutì, sorrise e accettò il bicchiere. Rotto il ghiaccio e rinvigorito dal dolce profumo di lei, la ringraziò e rinnovò il saluto, questa volta sorridendo e stringendola in un abbraccio affettuoso e sentito. E alla fine del loro vicendevole benvenuto, l’ospitante bevve un sorso dello champagne. In qualche secondo, gli occhi di un marrone scuro dell’uomo si tinsero di verde, un verde clorofilla. La Morte Rossa lo osservò perdersi da sotto la maschera.
Prima che qualche personalità loquace o un uomo di servizio la interrompessero, la Morte Rossa prese a braccetto l’uomo e si lasciò guidare attraverso la villa, uscendo dalla sala da ballo: John Frankhlyn, dal momento stesso che gli occhi gli si furono tinti di verde, conosceva benissimo le intenzioni della propria dama e non le avrebbe tradite per nulla al mondo.

Soli e scaltri, i due iniziarono a dirigersi verso i piani inferiori, verso il caveau della vittima, verso la vera ragione dell’apparizione della creatura antropomorfa.

I due stretti in un abbraccio inscindibile camminavano nel buio, con la poca luce lunare che faticava a penetrare gli alti e frondosi alberi antichi del parco che circondava la villa.
Si muovevano veloci tra ritratti di famiglia e tendaggi scuri, calpestando raffinati tappeti siberiani sotto alle volte a crociera dei corridoi e dei saloni che attraversavano; ogni tanto, la donna si fermava ad osservare le stanze che attraversavano. Inorridiva. Erano tutte adornate con raffinate raffigurazioni floreali alle pareti e mobili di alto pregio in castagno placcati in argento. Nessuna pianta, nemmeno in vasetti. Quella villa era la morte della natura, la vittoria dell’arroganza sulla terra.

E poi, dopo diversi minuti, accadde.

Si trovarono di fronte a uno specchio a figura intera. Superficie di platino lavorato, incorniciato da ottone e pietre preziose, smeraldi e zaffiri probabilmente. Dalla lavorazione sembrava essere antico, modificato di recente. Lei, infine, si tolse anche la maschera e quel raccapricciante abito rosso rimanendo con i piedi scalzi e un tanga a coprire ciò che era stato un tempo il suo corpo mortale, prima dell’incidente in laboratorio.
Si osservò per vedere quanto del suo corpo umano fosse rimasto immutato.
Questa donna dalla pelle anormale, ora ancora coperta da un pesante fondotinta rosaceo, appariva estranea alla natura di femmina umana. La sua bellezza era ancora maggiore, trascendentale. La figura era alta e formosa, con una forma a doppio calice: larghe spalle e un seno abbondante, una vita stretta e un bacino abbondante, ma le gambe e le braccia erano esili come se fossero le radici e i rami di un albero.
Sembrava che un’edera avesse avvolto la donna e attraverso i legami l’avesse sfigurata stringendola in una stretta mortale; o che non fosse più umana ma una betulla antropomorfa. Era troppo magra in alcuni punti, troppo abbondante in altri; come se una pianta cercasse di apparire simile alle prede che tanto desidera!
Il viso una volta rotondo e pieno, era diventato oblungo e dalle guance scavate, e le labbra una volta piccole si erano ingrossate diventando gravide di veleni: se qualcuno l’avesse baciata e lei avesse desiderato avvelenarlo, avrebbe potuto uccidere la vittima in pochi secondi.
 

Ma si era fatto tardi, l’ora concordata si avvicinava, e la fu Morte Rossa, ora se stessa, riprese a braccetto la sua vittima ammaliata, in una stretta per le deboli braccia dell’uomo quasi lacerante e, trovate le scale, scesero al piano inferiore dove alla fine del cammino si ritrovarono davanti a una grande porta blindata di metallo lucidissimo.

«Apri. Ah, tesoro, mi sai dire che ore sono?», chiese lei rivolgendo lo sguardo ai piani superiore, verso il soffitto.

L’uomo, in una sorta di trance, prima aprì la porta blindata del caveau, quindi le avvicinò il polso destro su cui portava un Rolex. Erano le undici abbondanti, quasi la mezza. Soddisfatta, la donna dai selvaggi capelli rossi gli si avvicinò e squadrandolo come un cobra con il topo lo baciò sulle labbra. Lui, esterrefatto da tanta passione, rispose al bacio con maggiore intensità, assaporando il dolce nettare delle sue labbra. Prima portò le mani ad accarezzarle la lunga fronda rossa, poi scese a sfiorarle le labbra e infine si soffermò sui grandi seni.
Fu allora che la vita dell’uomo si spense, con il cadavere irrigidito che si riversò contro la donna; lei ridendo cristallina si scansò di lato e osservò il proprio lavoro.

Ma poi, la donna che fu la Morte Rossa entrò nel caveau.

E mentre la fu Morte Rossa entrava a ispezionare i reperti archeologici di quella bestiola a sangue caldo, l’uomo avvelenato iniziò a rattrappirsi, consumato da un veleno che aveva iniziato a invadere ogni vaso sanguigno dopo il bacio tanto desiderato: le labbra si tinsero di un opaco verde clorofilla mentre il sangue veniva ripudiato dal corpo a fiotti, uscendo dai pori della pelle in una grande pozza attorno al cadavere, per poi essere sostituito da cloroplasti e cellule protette da una spessa parete cellulare. Se all’inizio il cadavere era riverso in una posizione scomposta sul pavimento marmoreo, con il passare dei secondi la posizione diventava sempre più rigida, con i legamenti che si bloccavano e si ingrandivano diventando più simili a rami che a braccia e gambe e collo: per quando la femme fatale fosse uscita, della vittima umana sarebbe rimasta solo una corteccia che un tempo assomigliava all’uomo che fu.

«Bene bene bene. Se io fossi uno sporco umano, per di più uomo, dove lascerei una povera pianta indifesa?»

Ora la misteriosa femmina si aggirava nel seminterrato, al primo piano dell’enorme camera blindata che si estendeva su ben tre piani. Erano passate le undici di notte da molto tempo, era quasi la mezza.

Resesi conto dell’ora, le sottili dita della femmina con un solo colpo a mano aperta distrussero i vetri di protezione della collezione di antichità e si infilarono in quei cubi frantumati prelevando e riponendo nel sacco tutto ciò che la donna riteneva potesse essere di valore, un sacco che aveva trovato mentre si faceva guidare dal suo ospite nella villa.

Quindi, soddisfatta, scese le scale, e si ritrovò al secondo piano interrato: gemme preziose e gioielli. Tanto interessavano alle sue amiche di carne e sangue.
C’era su freddi scaffali di legno una ricca collezione di pietre e metalli ancora allo stato grezzo, preservati da campane di vetro e un’illuminazione poco intensa. Davanti a ciascun elemento della collezione era posizionata una medaglietta con sopra il nome e le caratteristiche; provenivano da tutto il mondo. Tutto finì nel sacco. Ma dall’altra parte della stanza, oltre una vetrata attraversabile aprendo una porta di vetro, si trovavano i gioielli e poi oltre ad essi le scale per scendere all’ultimo piano del caveau. Quei gioielli avrebbero reso la donna dalle nove vite ancora più ricca e riconoscente verso l’amica delle piante.

Ma fu al terzo piano inferiore della magione che la missione vide la sua soluzione. La fu Morte Rossa increspò le labbra carnose in un sorriso: era vicina alla sorella da salvare!

«Mia povera piccola indifesa amica. Eccoti qui, ma cosa ti hanno fatto? Qui non puoi stare, hai bisogno di vivere di nuovo, ecco ti aiuto io.»

Dentro a una piccola teca di cristallo che custodiva il piatto forte della collezione del miliardario c’era il fossile di una delle prime piante mai apparse sulla Terra, la più antica mai ritrovata! E raggiuntala, un risolino di soddisfazione e di pura gioia eruppe dalla gola della donna. Quindi senza esitazioni spaccò con un pugno la teca di vetro dentro alla quale la pianta addormentata in una matrice rocciosa asfissiava.
La liberò e la strinse alla guancia.

La misteriosa donna e la sua sorella antica si erano ricongiunte.

La fu Morte Rossa era finalmente pronta ad andarsene, ma non aveva finito: la villa, con tutti i suoi ospiti all’interno, si reggeva ancora sulle proprie fondamenta e anche tutti gli ospiti del miliardario ingrato dovevano pagare, e la donna sapeva cosa fare. Depose il sacco con la refurtiva a terra, sul pavimento.
Dopo aver osservato quella stanza rivestita di metallo bianco e illuminata artificialmente, resa dall’uomo aliena alla terra dentro alla quale era stata scavata, sospirò e rivolse lo sguardo verso il proprio addome.
Se prima indossava un misero tanga come unico indumento, si tolse anche quello, rimanendo come quando la Natura l’aveva forgiata anni prima. Immise le sottili dita dentro alle proprie labbra verginee e da esse ricavò un piccolo seme bianco, poco più piccolo di un chicco di riso; lo depose a terra, sulle piastrelle bianche. Subito, da esso ne uscirono mille serpi di edera velenosa che si scagliarono contro il pavimento sventrandolo, contro le pareti strappando le varie assi di metallo fino a ritrovare il terreno e immergersi in esso come fossero radici.
E mentre lei lasciava il caveau risalendo le scalinate interne e poi uscendo dalla porta blindata, queste edere la seguirono nell’ascesa verso il parco, invadendo ogni angolo prima dei tre piani del caveau e poi della villa.

In giardino, nuda e scalza, naturale, con la refurtiva nella mano sinistra e il pezzo di roccia organica nell’altra, tornò fuori, nella brezza estiva, raffrescata dalla notte. Gli uccelli al suo passaggio cantavano le melodie più stupende, le lucertole uscivano dalle loro tane per osservarla, i dobermann che infestavano la proprietà ai danni delle persone non volute si limitarono a guaire e offrirle la loro vulnerabile pancia se avesse voluto accarezzarli.
Ma lei, volle solo richiamare il suo passaggio per andarsene. Era ora di dire addio a tutte quelle persone. A momenti, sarebbe comparso un grande bulbo bianco dal terreno che…

«Hei, non vorrai mica lasciarmi qui! Dopo che li ho tenuti buoni per te!». Una voce risuonò alle spalle della donna floreale.

L’essere dagli occhi con iridi enormi e gialle come il fiore proibito si girò lentamente verso la sorgente della voce acuta e sgraziata, non prima di avere messo nel bocciolo gigante apparso dalla terra il sacco e il fossile.
Ad averla chiamata era una giovane donna, sulla trentina, dai capelli biondi rischiarati dalla luna raccolti in due codini ai lati della calotta cranica. Era appoggiata alla parete del capanno degli attrezzi dei giardinieri, al suo fianco c’era un enorme martello chiodato.
Le due si diedero un lungo bacio mentre i loro corpi si abbracciavano e un sorriso si dipingeva sul viso di entrambe.

«Non mi stavo mica dimenticando della mia bestiola preferita, tranquilla! Invece, fai uscire i tuoi uomini: la villa sta per crollare su se stessa.»

La bionda si staccò dall’abbraccio e si pulì le labbra, godendo del sapore di zucca marcia che proveniva dalla sua amica. Scomparve per qualche minuto dentro alla villa, e ne uscì facendo mille ruote fino a raggiungere la Rossa amica dentro al bocciolo, abbracciandola allegra. E mentre la misteriosa invitata non più mascherata scompariva con la sua amante dentro alle interiora della terra all’interno di un grande bozzolo candido come la neve, centinaia di uomini e donne urlavano mentre le edere strappavano la terra sotto al peso della villa facendola crollare su stessa. Morirono tutti i presenti.

«Harley, tesoro, dimmi, sono morti tutti vero? A parte i tuoi sottoposti non è andato via nessuno. Giusto?»

«Ehm… Quasi. Sono riusciti a eludere la sorveglianza solo tre persone: il miliardario Bruce Wayne, la figlia del commissario Barbara Gordon e il sindaco Adam Smith.»

«Non importa, la mia sorella è al sicuro. Grazie del diversivo.»


MEMORIE DI UNA GATTA LADRA, giorno 21 giugno 2001

Miao.

Trovare la tana della Rossa è stato facile: mi aveva detto che si trovava lungo la costa a est di Gotham e sapendo che da poco tempo un terremoto aveva elevato alcune grotte dal mare, avevo supposto che si potesse trovare in una di quelle. Arrivai via mare, con un motoscafo preso in prestito alla guardia costiera; o meglio, si sarebbero accorti della mancanza solo al mattino seguente, presumo oggi. È sempre bello sentire le onde infrangersi, il sapore di sale, la brezza sul viso. Un bellissimo modo per recuperare il bottino.
All’inizio non ero sicura di trovarla in una delle grotte, stavo navigando da mezz’ora avanti e indietro ma senza alcun risultato palpabile. Poi i miei sensi felini hanno fremuto: non appena il vento cambiò direzione, alle mie narici arrivò l’inconfondibile puzzo di zucca marcia.
Da ciò trovare la tana di Ivy è stato molto facile, mi è bastato parcheggiare il motoscafo ai piedi della scogliera e scalarla con i miei artigli di ferro e l’uso di una corda da arrampicata. L’olezzo mi ha guidato meglio di una luce nel buio, in dieci minuti ero dentro all’antro.

La tana della Rossa è diversa da qualsiasi altra tana immaginabile: non c’è mobilio, o finestre, o porte, o dispense per il cibo. Non c’è nulla di antropico. Quando entrai nella tana, la puzza di zucca marcia sovrastava la salinità dell’ambiente, intollerabile; all’inizio vidi solo una marea di piante, ogni tipo di albero e arbusto, pianta erbacea e rampicante, tutte attorno ad Harley e a un essere ricoperto di papaveri rossi, i fiori preferiti di Harley, e quell’essere era Poison Ivy per i nemici ma per noi semplicemente Pamela. Quelle piante non sembravano semplici piante, ma ramificazioni dell’essenza stessa di Pam, circondandola, cercandola, incurvandosi verso di lei ad ogni suo inspiro ed allontanandosi ad ogni espiro. Ivy era il loro sole, la sua sola presenza permetteva la loro sopravvivenza all’interno di quella che era una grotta marina, ancora tanto umida e coperta qua e là di pozzanghere. Ma le piante sopravvivano grazie alla Rossa, la loro mamma, e grazie alla Rossa tutte erano prodighe di attenzioni verso Harley, che canticchiava sdraiata accanto a lei.

Mi videro, io le salutai. Harley mi fece cenno di avvicinarmi, mentre la Rossa si limitava ad osservarmi con i suoi penetranti occhi gialli.

Ci salutammo, Harley era frizzante come suo solito, sentirla parlare è come ascoltare il canto altalenante di un usignolo, ma molto più acuto e sgraziato. Ivy invece mi salutò fredda, con un tono profondo, come se non stesse parlando il corpo fiorito al fianco di Harley ma tutta la massa di piante nella grotta.

Era ovvio che Pamela non mi volesse nella sua tana, con tutte le sue preziose piante, le sue cosiddette ‘sorelle’. Mi sbrigai a chiedere com’era andato il piano.
Harley, sempre sorridente e piena di energia, proruppe in una risatina e si sporse ad annusare i fiori lungo tutto il corpo dell’amante. Poi estasiata tornò a sdraiarsi come una bambina che aveva appena ricevuto il più bello dei regali, mentre un’edera sopra la sua testa si stava abbassando rivelando nel suo rampicante tanti piccoli petali di papavero rosso danzanti solo per lei. Lei sembrò apprezzare, a me si rizzò ogni pelo che avevo in corpo.

«Splendidamente, non ci sono dubbi a riguardo. Quelle stupide bestie nemmeno si saranno accorte della sparizione dei reperti e della mia sorella. Harley, la mia dolce Harley, ha fatto un lavoro egregio. Solo tre persone sono sopravvissute: Bruce Wayne, Barbara Gordon e il Sindaco Smith. Mi bastano, non ci do troppa importanza. Invece, cosa ne pensi della mia sorella? Non la trovi una pianta eccezionale?»

Quale pianta?, stavo per chiedere, confusa. Poi la notai. Mi si accapponò la pelle, di nuovo ogni singolo pelo del mio corpo si rizzò, un soffio di paura mi salì dalla gola e indietreggiai; il tutto mentre la Rossa mi osservava soddisfatta. Non lo avevo notato prima, ma c’era qualcosa di orrendo all’interno della grotta! Se il pavimento era ricoperto di piante verdi, grandi e piccoli, indifese e predatrici, il soffitto era ricolmo di alghe nere e sottili, sembravano dei sottili serpenti pronti a cadere su di me e divorarmi. Deglutii.
Le chiesi spiegazioni.

«Come vedi, la mia sorella è rinata. Per ora è ancora debole, si deve ambientare al nuovo clima, ma non appena si riprenderà, io e lei faremo grandi cose! Stanne certa, Gotham e tutte le altre cittadine pagheranno per quello che hanno fatto contro le mie sorelle! Ora va’, e prendi con te anche il bottino –non so che farmene di quella spazzatura rubata alla terra– e Harley. Vi avviserò quando noi attaccheremo, tranquilla. Ora andate!»

E un rampicante mi consegnò il bottino, fino a quel momento custodito dentro alle fronde di un piccolo arbusto. Harley di controvoglia baciò la sua amante sulle labbra e si alzò, venendo verso di me. Uscimmo dalla grotta con il bottino da spartirci in mano, ognuna che lo sollevava con una mano. Saltammo in mare dalla scogliera e ci issammo sul motoscafo.
All’orizzonte, in procinto di andarcene, ci girammo a guardare la scogliera. Della grotta ora si vedevano solo velenosi rampicanti verdi strisciare lungo la roccia a chiudere il passaggio e un’inquietante massa nera che si espandeva.

Un bel piano, che mi ha fatto ottenere tanti gioielli e reperti da rivendere, al netto di qualche ricerca architettonica. E con quel bel fascinoso di Bruce che è sopravvissuto, abbiamo rasentato la perfezione.

Sono proprio curiosa di vedere cosa combineranno la mia amica Ivy e quella sua ‘sorella’ ex-fossile. Harley non sembra darci peso, ma temo che per Gotham e per Bruce ci saranno tempi molto brutti.

In ordine da sinistra: Poison Ivy, Harley Quinn e Selina Kyle; non sono come descritte nel racconto ma per farvi un’idea dei personaggi.

Un amore distrutto dall’odio

“ Non troppo tempo fa in una terra vicina vicina e durante una notta tempestosa, una ragazza dai lunghi capelli rossi di sangue corse al suo laptop e sporcandolo tutto digitò sulla tastiera, cercando un indirizzo internet. Era appena riuscita a scappare, gli aveva piantato un coltello nella tempia, a quello più vicino, mentre all’altro non aveva nemmeno pensato: doveva scappare. Sapeva che stava arrivando con quella sua amica, quella dotata di uncini, la stavano cercando l’avrebbero trovata. Il dormitorio non era così grande…
Gli occhi gialli guardarono la pagina caricarsi e poi scelsero nella lista di sezioni quella che poteva dargli una risposta: Creature Misteriose & Mitologiche. Però ci metteva troppo a caricarsi e li sentiva arrivare! I lunghi capelli toccavano terra e i pezzi di metallo ad essi continuavano a strusciarsi sul legno, provocando inquietanti fruscii che terribili si univano alle risatine della donna che guidava lentamente l’ansimante suo amico. Ormai erano alla porta!
Consapevole di non riuscire a scoprire altro, la ragazza corse in bagno e si guardò allo specchio, rivoltandosi per ciò che vide. I capelli di carbone si erano tinti di porpora, la pelle chiara era rossiccia e la tuta che aveva usato per correre le era rimasta incollata, zuppa qual era di sangue. Le ricordava un film quella visione ma non volle approfondire: chiuse la mano a pugno e ruppe lo specchio, urlando di rabbia e fregandosi delle schegge: al massimo doveva preoccuparsi di avere rivelato la propria posizione ai suoi inseguitori! Quindi dalle macerie raccolse un coltello corto ma con un filo sottilissimo, nascosto fino a un secondo prima dietro al vetro riflettente dello specchio.
Ora si balla, carni da macello. E io sono la vostra macellaia!
Ora erano alla porta della camera e sentiva che l’uomo stava caricando. Lo sentiva ansimare, lo sentiva muggire con la sua bocca ricolma di carne cruda, grosso enorme come un vitello cannibale! E poi Bang! I due entrarono e si guardarono attorno, mentre i lunghi capelli di lei prendevano possesso della stanza posandosi sulla foto di due bambini che sorridevano all’obiettivo a bordo di un carro armato, poi sul letto ricolmo di libri di mitologia e dell’orrore, quindi sul tappeto sporco della scia rossa che partiva dall’entrata e arrivava alla sedia girevole viola scuro e infine sulla porta dell’armadio a destra e del bagno a destra. L’uomo si limitò ad aprire al massimo le narici e fiutare la sua preda. Nel bagno.
Subito si preparò a caricare per sfondare ciò che li separava dalla belle brunetta, consapevole che la sua alleata non sarebbe mai riuscita a sfondare una porta in legno con i suoi uncini: non aveva abbastanza forza! E allora prese la carica. E allora abbassò la testa e piegò il braccio, pronto a distruggere pure quella misera lastra di legno che miseramente separava quei due mostri dalla loro preda. E allora corse ruggendo contro la porta, con le corna perpendicolari pronte a uccidere quella ragazza tanto stupida da barricarsi in un bagno. E morì.
La ragazza dai lunghi capelli neri ma completamente sporchi del sangue del suo primo aguzzino aveva aperto la porta completamente, sbilanciando la corsa del toro e incastrandolo nella finestra, fabbricata fortunatamente proprio davanti alla porta, centrale alla stanzetta. Subito Jennifer aveva richiuso la porta bloccando il demone senza mani e lasciandolo solo con le sue urla acute di rabbia e frustrazione e aveva tagliato i tendini delle ginocchia all’individuo davanti a lei, mentre di dimenava cercando di uscire da quella trappola ma invano; quindi, accasciatosi, la bella brunetta gli aveva conficcato da dietro il coltellino proprio nell’ultima vertebra, quella che collegava il cranio al corpo, e rimestava entrava e usciva a piacimento saliva e scendeva mentre nuovo sangue scaldava quelle dita sapienti. Quindi aveva spalancato ancora di più la finestra e lo aveva espulso, facendolo precipitare per cinque piani di un titanico edificio.
Ora toccava al demone giapponese e la bella sadica aveva una splendida idea. Quindi uscì sul balcone e le gridò di seguirla, sicura che la donna non avrebbe perso l’occasione di trafiggerla con i suoi innumerevoli uncini e mangiarsela lentamente. E… 


Tom aveva richiuso il libro e mi aveva guardato, con uno sguardo intenso. Gli piaceva scrivere di cose non troppo leggere e anche se non era molto bravo la passione che ci metteva rendeva tutto più interessante, intrigante e affascinante. Ci eravamo conosciuti grazie al laboratorio di scrittura, subito piaciuti. Di lui mi piacevano la grande fantasia e l’allegria che sprigionava, gli occhi grigi che colpiti dal sole diventavano argentei, i capelli rossi e morbidi, da accarezzare, il fisico poi ovviamente. Anche io scrivevo, scrivevo di una ragazza una fata tipo, che andava in un castello e finiva nei guai; un racconto incompleto ma mi piaceva scrivere e ciò mi accomunava molto a lui… A Tom.

Quel giorno era venuto a casa mia per la prima volta, ci vedevamo sempre fuori. Sulla porta di casa, faccia a faccia, mi aveva baciato scherzosamente con un bacio a stampo e dopo un abbraccio molto caloroso e profondo, era entrato. Dopo essersi fermato un attimo sulla porta del salone a contemplare la brutta stanza ammobiliata solo da un grande divano giallo posto davanti al televisore e dalla poltrona a fiori di mia mamma, si era sfilato lo zaino e seduto sul divano, facendomi segno di imitarlo al suo fianco. Felice, ero accorso a soddisfare la sua richiesta e chinandomi a togliere dei cuscini avevo tirato fuori il mio bellissimo quaderno su cui scrivevo racconti. Quando avevo iniziato a raccontare, lui si era tolto la maglietta mostrando un fisico scolpito e notato che continuavo a leggere nonostante ciò ridendo si era messo ad ascoltare senza battere ciglio, preso dalla lettura composta con tanta volontà ma poco talento.

Eccola qui:
Era un fredda notte d’Inverno, la flebile candela disegnava giochi di ombre sul suo volto, mentre il resto della camera era avvolto nel buio. Lucinda scriveva sul suo diario frasi di ansia, di terrore, temeva: la misteriosa figura di cui non riusciva a scorgere il volto la osservava, dalle profondità dell’antico castello di pietra solida e fredda, e lei ricambiava lo sguardo. Il grande orologio a pendolo suonava la mezzanotte e il suo rintocco scuoteva il cuore della povera ragazza, che non sapeva cosa fare: avvisare gli amici che la presenza era effettivamente lì oppure solo la padrona di casa, annidata nella Torre Est? Lei non lo sapeva. Le sembrava quasi di scorgere, quando non guardava, le figure dei quadri terrificanti muoversi dalle torture in cui erano raffigurate e sporgersi verso di lei grondando sangue sul pavimento; oppure che qualcosa mentre dormiva si muovesse sotto al letto e nel buio provasse a strisciare verso di lei e le mangiasse il viso; o che dalle finestre di vetro temperato qualcosa entrasse di soppiatto con gli artigli scoperti e le zanne pronte a banchettare lasciandola per sempre in quel castello buio e freddo. Di questo scriveva nel suo diario, una scrittura piccola, sottile, claustrofobica come si sentiva in un posto dove le sue peggiori paure sembravano realizzarsi.
Facendosi coraggio, dopo che l’orologio a pendolo aveva suonato altre due volte, la ragazza con braccio tremante afferrò la candela e si alzò e, temendo che una mano dal buio l’afferrasse, iniziò a camminare verso il centro della stanza e, posta la luce sul pavimento, tremando si inginocchiò. Guardò che sotto al letto non ci fosse niente, ma singhiozzò: nel buio qualcosa si muoveva! Era veloce, piccolo ma la guardava con occhi maligni, correva verso di lei. Subito, lei si ritrasse e cadde, per colpa dello slancio, nell’armadio e tutti gli appendini le sembrarono afferrarla come dita scheletriche. Urlò, invano. Il topo continuò la sua corsa fin sotto l’armadio e scomparve nel buio da dove era comparso.
Lucinda, con il viso rigato dalle lacrime, si dispiacque di avere urlato perché nemmeno lei sapeva quali orribili serpenti aveva risvegliato, quali incubi la attendevano in silenzio con calma, quali spaventi la avrebbero colta, la mano nel buio che l’avrebbe presa. E due colpi, a malapena udibili nel silenzio che stava ingoiando l’anima della povera ragazza, provennero dalla porta spessa, che lei, con il cuore in gola, aprì.”


E solo dopo avere avuto un suo parere feci quello che aveva sperato fin dall’inizio, con un sorriso sulle labbra e la gioia negli occhi. Mi piaceva baciarlo, sentire le sue labbra, la lingua sul collo e là dietro all’orecchio. Mi piaceva sentirlo, vicino a me, caldo e… Beh, non serve dilungarsi troppo! Ci eravamo divertiti, è ovvio.

Alla fine, dopo che se n’era andato, rimasi abbastanza soddisfatto della serata: avevamo parlato, migliorato i nostri testi e poi passato il pomeriggio a divertirci come non facevo da tempo. Aveva detto che i miei occhi blu sono fantastici e che era stato davvero divertente passare con me il pomeriggio, che ci saremmo rivisti. Io ero felice all’epoca, era bello (da me l’occhio ha sempre fatto il proprio dovere nella scelta) ed era molto allegro, ottimo per il mio carattere mogio e facilmente deprimibile. Ma non mi richiamò più, per giorni e giorni, finché alla fine decisi che forse avevo affrettato le cose…

Solo dopo una settimana scoprii che era stato ritrovato un cadavere in un crepaccio, vicino a casa mia. Aveva tutto. Documenti, sodi, perfino lo zaino con tanto di quaderno con cui si esercitava a scrivere racconti; non era stata una rapina, ma probabilmente un crimine dell’odio: al giornale hanno detto che è stato torturato prima di morire, prima di essere stato buttato… là… come si butta la spazzatura nel cestino… e alla televisione hanno detto che gli è stato inciso sul petto DIE FAG! Al mio Tom…
Al mio Tom.




Yago, l’angelo dell’acqua

Yago era andato ad aiutare i pescatori. La spiaggia di ciottoli era distante diversi chilometri da dove aveva lasciato il suo eroe ma comunque anche là udiva chiaramente le urla dall’arena, situata al centro dell’abitato; lui ora era in mezzo alla natura con gente semplice e ospitale.

Si era slegato i sandali e li aveva posti su di un grande masso che sporgeva come un albero dalla spiaggia, su di esso aveva posto anche i lunghi pantaloni di cotone e la giacchetta in pelle; si era slegato i capelli ricci e aveva posto anche il nastro di vimini intrecciati sul masso. Quindi, col tanga addosso, si era tuffato dalla roccia più alta, quelli che guardava dall’alto dei suoi trenta metri la spiaggia prima di oltrepassarla e sovrastare il mare nero e profondo.

Era dovuta all’immensità di quel mare così irto di pericoli che la richiesta dell’aiuto dell’angelo dell’acqua era necessaria: quel mare spesso creava onde in grado di sbalzare via le fragili barche e gli strumenti che servivano a sfamare così tante persone finivano irrimediabilmente sul fondo dell’oceano. E Yago aveva il compito di recuperarle dietro compenso di un pesce o due con cui sfamare se stesso e il proprio padrone; né la pressione né la temperatura né l’assenza di ossigeno: niente avrebbe spinto il mare a ferire il suo messaggero e mano divina.

Così Yago passava quando poteva le giornate di quel torneo in mare, sott’acqua, e riscopriva le meraviglie di quel posto incantato: coralli, pesci di varie forme e colori, giochi di luce lungo le colonne istriate di grandi civiltà sommerse. Di solito, gli strumenti di pesca (trappole o ami, perlopiù) si fermavano sui tetti devastati dei templi, qualcosa come una statua in rovina o un buco nella struttura riuscivano a fermare la corsa dell’oggetto prima che le correnti lo trascinassero nella valle più profonda, nella quale nemmeno gli eletti del mare osavano avventurarsi. Qualcosa abitava quella valle e, poiché era ritenuta quella una delle valli sommerse più alte di quel bacino idrico, doveva essere qualcosa pesante un numero inimmaginabile di tonnellate; qualcosa che se avesse mai deciso di alzarsi fino al mondo emerso, avrebbe creato un’onda di rimando talmente alta da inabissare qualsiasi isola così sfortunata da trovarsi nelle vicinanze.

E ciò Yago lo sapeva.

Per questo non si era avventurato mai oltre lo strapiombo, dove sembrava esserci un unico grande buco ricolmo di oscurità. Preferiva nuotare dove i pesci assumevano ancora sembianze certe, dove i pesci erano dotati di uno scheletro anche cartilagineo, dove i pesci avevano corpi opachi e solidi. E quindi passava le ore con lo sguardo rivolto verso il sole, oscurato dalle barche, ad aspettare che qualcosa o qualcuno lo richiamasse ai doveri che lui stesso aveva scelto di assumersi; passava le ore disteso su qualche edificio in rovina o sul fondo pietroso, ben consapevole che qualche cetriolo di mare o anguilla si potesse nascondere sotto ai grandi massi che spesso usava come letto. E rifletteva, con i grandi occhi azzurri ora tinti di nero velati di tristezza, se mai un giorno il suo eroe lo avrebbe mai liberato dal giogo; se mai un giorno gli avesse sorriso.

Tuttavia, quel giorno, qualcosa accadde: distratto dai suoi pensieri, quasi non notò la gabbia di rame che pian piano cadeva, inesorabile, giù fino alla valle inaccessibile. La gabbia era caduta prima che avessero potuto posizionarla, non aveva corde con cui essere tirata su piena qualche ora dopo, e quindi Yago capì che doveva recuperarla.

Doveva entrare nella valle profonda, forse valle velante di un’altra ancora più profonda e spaventosa. Deglutì e iniziò a nuotare in quella direzione.

Più si avvicinava a quell’abisso scuro e minaccioso e più percepiva che qualcosa di immenso lo stava fissando. Non poteva essere nella foresta algale sottostante, era troppo fitta; non poteva nemmeno fissarlo nella colonna d’acqua soprastante, lo avrebbe oscurato ancora di più impedendo ai raggi solari di penetrare nel liquido acqueo. Doveva nascondersi nella gola nella quale la trappola per pesci stava venendo trascinata dalla corrente marina!

E quando finalmente il ragazzo raggiunse l’oggetto tanto inseguito, ebbe la conferma dei suoi sospetti: dall’altra parte della strettoia di rocce ricoperte di affilati coralli si trovava un’immensa creatura dall’aspetto vagamente antropomorfo e dal viso tentacolare!  Lo fissava con i suoi occhi, con due occhi che sembravano quasi sette soli di pura gelatina bianca e opaca; e Yago fissava quella creatura, dall’altra parte della strettoia ma non al sicuro: era troppo stretta perché la creatura potesse passarvi ma sicuramente troppo fragile per contenere un tentacolo sferzato per distruggere la barriera naturale.

Se il mostro avesse voluto ucciderlo, lo avrebbe fatto senza problemi.

Ma non lo uccise, anzi, in tutta la sua smisurata statura si spostò e indicò con le sue centinaia di tentacoli, alcuni lunghi più di cento metri, una piccola grotta crollata. Anche le chele, grandi come interi villaggi, indicavano quel punto: era Yago il soggetto di quella segnalazione ed era Yago colui al quale la creatura aveva chiesto aiuto.

Yago si fece coraggio e oltrepassò la strettoia che lo separava dal titano. Deglutì. Aveva ragione, l’oscuro abisso che aveva attraversato non era niente in confronto a quello che ospitava il mostro! E nell’immensità della creatura, essa non poggiava nemmeno i piedi sul fondale: se lo avesse attaccato e lo avesse lasciato cadere fino al fondale, nessuno lo avrebbe mai più ritrovato. 

Non avrebbe più rivisto Rafael!

Quindi, con il cuore in mano, Yago schivò con facilità i lunghi tentacoli e dopo tre minuti di nuotata raggiunse con facilità la grotta; con i ruggiti che sembravano lamenti, lo scudiero capì che lì dentro c’erano i piccoli della creatura! Ancora non sapeva cosa, ma qualcosa aveva bloccato l’apertura della grotta naturale. Un masso, forse; o alcuni massi.

Di certo non era un problema rilevante per il vassallo dell’acqua: con estrema facilità, la stessa con cui non subiva né le temperature né le pressioni di quella profondità, la stessa con cui respirava sott’acqua, ordinò all’acqua dentro alla caverna sottomarina di uscire, creando così una fortissima corrente che prima spinse via i massi che bloccavano l’entrata e quindi i tredici piccoli (si fa per dire piccoli, era grandi quanti Rafael) del mostro. Ogni muscolo del ragazzo si era contratto nello sforzo, senza rendersene conto si era perfino morso la lingua, come se avesse subito un elettroshock, e subito dopo sussultò in avanti socchiudendo gli occhi.

L’ultima cosa che vide prima di svenire e probabilmente morire per la fatica fu il mostro raccogliere nelle alghe che lo ricoprivano i suoi cuccioli e staccarsi una squama. Poi Yago svenne.