Racconto derivativo: Il tesoro nascosto

Una X sulla mappa, un tesoro da scoprire, un viaggio inaspettatamente irto di pericolo. John e Sarah si guardavano negli occhi, fradici e tremanti, mentre con la cartina in mano guardavano la galleria che si dipanava davanti a loro.

«Pronta?», chiese lui.

«Certo! Ma ce la faremo senza torcia e viveri? Là sotto sembra molto buio… C’è una sola apertura dall’altra parte della grotta e sembra che le tenebre siano pronte a divorarci, nascondendo altri trabocchetti!»

Sarah non si sbagliava. Già Arthur e William erano caduti in trappola, il primo in un fossato ricolmo di picche di legno, l’altro aveva messo il piede nel punto sbagliato del ponte ed era crollato nell’abisso insieme ad esso. Solo in due erano sopravvissuti a tutte quelle trappole, al tuffo dalla cascata e all’affioramento nella grotta sottostante ad essa.  

Ma i pericoli erano ancora molti.

Senza esitare, perché ormai non potevano fare altro, Sarah e John iniziarono ad esplorare il tunnel, tenendosi per mano e con quella libera tastando il muro di roccia attorno a loro. La situazione sembrava tranquilla, ma se quel viaggio alla ricerca del tesoro del Pirata Barbaviola fosse stato semplice, in quel momento non si sarebbero trovati solo loro due! Nella penombra riuscirono a scorgere una piccola scalinata che, percorsa per diversi minuti, li portò in una valle scavata nella roccia da un grande fiume.
I due scesero a controllare da che parte andare.

«John, secondo te, che fiume è?»

«Non lo so Sarah, ma non deve essere un grande fiume, non deve essere profondo. Potremmo attraversarlo, mi sembra che da quella sponda ci sia una rientranza nella parete da cui proviene della luce!»

Visto che la ragazza non aveva argomenti con cui controbattere, lo seguì nell’acqua, dove il fiume sembrava meno profondo. Il ragazzo aveva ragione: placido e mediamente poco profondo, con il letto leggermente inclinato, l’attraversamento procedette senza problemi; almeno finché dalle acque non emerse un enorme serpente che afferrò John per la gamba destra e lo fece sparire sott’acqua. Inutile fu ogni tentativo della ragazza di soccorrerlo o quantomeno trovarlo.

Sola e sotto shock, Sarah uscì dalle acque maledette e raggiunse la rientranza della parete. Effettivamente usciva luce e, osservando meglio, c’era un piccolo passaggio tra due pareti di roccia accostate l’una sull’altra.

“Dai, che ce la faccio, sì, entrata e… Oh mio Dio!”

Sarah si trovò davanti a un grande forziere, che nella penombra sembrava socchiuso. Esuberante di felicità e soddisfazione nonostante tutte le perdite che aveva subito, con la mente tornò a quando lei e i suoi tre amici erano venuti in possesso della fantomatica mappa.

Finalmente, il tesoro era suo!

Subito la ragazza corse al forziere, inginocchiandosi prima di aprirlo per assaporare da vicino la vista dell’oro e dei preziosi in esso contenuti. Lo aprì e… e venne assalita da un altro serpente, simile a quello che aveva ucciso John, che aveva fatto la tana proprio in quel forziere.

E così, quel tesoro non fu più ritrovato, e non lo è nemmeno adesso!

Quello che avete letto era un elaborato da un esercizio offerto da: Diaro del Viandante Nero

Challenge di Febbraio: Le maschere

«Eco qua, queo che gave’ ordina’, bei fioi. Un cafe’ par ti, dotor dea peste, e na ciocoeata calda par sto’ bel Arlechin. Steme ben!»

Maso sedeva agitato mentre osservava il ragazzo con cui si era dato appuntamento quel pomeriggio, un giorno come tanti per loro almeno all’apparenza, ma un giorno speciale nel profondo. Era a disagio mentre osservava le donne ingobbite nei loro foulard vendere rose rosse alle coppiette felici che li circondavano nei tavoli vicini. Era a disagio mentre le fanciulle esaltate dai gesti dei compagni aprivano pacchi piccoli o grandi, manifestazioni dell’animo innamorato. Maso osservava la camicia nera al tavolo al loro fianco che offriva un mazzo di ortensie alla sua bella, in un sorriso orgoglioso. Maso osservava tutto, in silenzio, dal volo dei piccioni sulla piazza alla Cattedrale che si stagliava sul mare, perfino il verso dei gabbiani e il vento impetuoso dalla laguna erano rifugi sicuri. Maso non osava guardare Gùsto in volto, ma Gùsto non aveva occhi che per Maso.

Gùsto sedeva eretto, attento a mostrare in tutta la loro maestosità quelle due spalle larghe che tanto si era guadagnato con il suo lavoro di gondoliere. Il corpo era completamente piastrellato di arcobaleni, il volto semicoperto da una maschera nera e in testa un tricorno bianco. Ma era là, con lui, in quel giorno tanto infelice per loro. Lentamente gustava il liquido caldo e denso, tingeva i baffi biondi di bruno, gli occhi neri non si spostavano di un centimetro dalla maschera dorata e adunca del suo conviviale.

Maso gli chiese se volesse assaggiare un cioccolatino da Perugia, dal nome Liù. All’assenso dell’Arlecchino, sorrise debolmente e dalle tasche estrasse un piccolo cubetto confezionato in rosa. Lo offrì. Gùsto allungò la mano, e mentre lentamente estraeva il cioccolatino dalle dita dell’offerente, con il pollice accarezzò il polso e mentre si allontanava le dita della mano; finalmente Gùsto scartò il velo di carta rosa e violetta, ne venne fuori un piccolo parallelepipedo dal color marroncino chiaro che gustò sotto lo sguardo incantato del dottore della peste.
Ora fu l’Arlecchino a chiedere se potesse offrire qualcosa: un sorso della cioccolata calda. All’assenso del dottore dorato, il gondoliere allungò lentamente la tazza e la porse. Maso l’accolse nelle due mani e se la portò alle labbra. Sulla tazzina bianca c’era un segno marrone dal quale il liquido aveva incontrato le labbra dell’Arlecchino e fu lì che beve, guardandolo negli occhi neri, e fu sempre da lì che l’Arlecchino bevve.

Restarono seduti ancora qualche momento, fino a quando la cameriera non ricomparve: «Fioi, voe’ calcossa in piu’? Na fritoea coea crema, forse?»

Dissero di no, Maso si alzò e andò dentro al bar per pagare. Gli interni erano spettacolari, i muri e i pavimenti d’Istria erano ricoperti con pregiati tappeti persiani, sui muri erano appesi numerosi specchi e nella grande sala imperavano due magnificenti candelabri verdi e rossi e bianchi di vetro pregiato. Maso si osservò allo specchio: un bel ragazzo, si poteva dire, non alto e nemmeno magro ma con due spettacolari occhi cangianti, occhi ora semicoperti dalla maschera. Era là, ma stava veramente vivendo il momento?

«Quanto era bello Scipione sul suo cavallo bianco! Egli fissava i romani con due occhi aperti e la bocca sorridente, ma con gesto forte e animatore e pareva che dicesse “Dobbiamo vincere ad ogni costo!”. Proprio come fa oggi il nostro amato Duce, quando parla ai nostri valorosi soldati. Però il Duce è più bravo e ancora più bello di Scipione!»

Fu il discorso della bambina dalla radio sul bancone a scuotere il rimuginatore dai propri pensieri: lui era là, stava vivendo quell’ora di magica luce con Gùsto e nulla avrebbe potuto rovinarla! Quindi, staccò gli occhi dallo specchio e posò lo sguardò oltre alla vetrina, oltre alla coppia di anziani impegnati a gustare insieme una mozzarella in carrozza, sull’Arlecchino. Ora che Maso non era più al tavolo con lui, Gùsto si era stravaccato sulla sedia, facendo scendere il sedere quasi oltre la fine di essa e appoggiando il capo sullo schienale. Maso sorrise: era così che lo aveva conosciuto due estati prima, alla spiaggia di Punta Sabbioni. Stravaccato e indolente.

Sorridente, si rivolse al barista. Chiese il conto e pagò.

«Grazie, e tornate presto! Ma scusa, non è un po’ presto per le maschere? Oggi è il giorno degli innamorati, non Carnevale!», commentò il barista con un sorriso sornione.
«Mai. Noi, al contrario di molti, le maschere non possiamo mai toglierle. Arrivederci.» e tornò dal compagno.

Insieme Gùsto e Maso girovagarono un po’ per la piazza, osservando e commentando i turisti con i loro inutili libretti e le mille mappe con cui in teoria avrebbero dovuto essere in grado di attraversare Venezia.

Gùsto, con il suo lavoro, sapeva benissimo che in verità quelle cartine per i turisti ingenui erano inutili. Non che Maso, pur in terra straniera, non lo sapesse: non era raro che uscito a prendere il pane notasse una coppia di turisti dall’accento pesante e dalle vocali larghe, ci si fermasse a dar loro indicazioni per la stazione dei treni e quando tornava con la spesa e un po’ d’ombra in stomaco li trovasse a pochi metri di distanza dalla volta precedente, solo in una nuova calle.

Sorrisero insieme.

Stanchi di San Marco, i due costeggiarono il mare e si diressero verso un ponticello tutto bianco. Di solito era invaso dai turisti, ma in quel momento non c’era nessuno. Quindi salirono al vertice delle scalinate e si appoggiarono al parapetto, anch’esso di pietra bianca. La vista ovviamente era il Ponte dei Sospiri. I turisti lo adoravano, loro invece lo osservavano come monito: se fossero stati tranquilli, non sarebbe successo nulla; o almeno così speravano.

«Buon San Valentino…», bisbigliò Arlecchino.

«A te.», rispose il dottore.

E le mani, per una frazione di secondo, si sfiorarono. Una lacrima scese sotto alla maschera adunca e dorata.

Fu una giornata stancante, il mondo celebrava l’amore e l’unione, ma loro preferivano stare tranquilli. Erano persone normali, non volevano andare contro la legge. Non apertamente almeno. Si limitarono a godere l’uno della compagnia dell’altro. Camminarono avanti e indietro, parlarono molto, del tempo, del Duce, dell’imminente guerra, dei gabbiani, dei turisti. Ma non di se stessi. Quello lo fecero quando entrarono in un portone, salirono strettissime scale e Gùsto fece girare la chiave d’ottone nella serratura del proprio appartamento. Una casa piccola e stretta, eretta in un palazzetto a meno di due metri dal palazzo che gli si stagliava di fronte. Una casa piccola, ma almeno i due poterono togliersi le maschere.

Si abbracciarono.

Quella che avete appena letto è una storiella scritta per la Challenge di Febbraio di Raynor’s Hall, che aveva come temi il Carnevale e le cose proibite. Spero abbiate apprezzato. Ciao!

Fiaba originale: La simpatica vecchina dei boschi

In un inverno freddo e innevato molto indietro nel tempo, una ragazza dalle guance tutte rosse e il nasino gelato si era persa di notte nelle grandi foreste di pini e abeti bianchi a nord della sua città, Letitia, e temendo di morire assiderata cercava di riscaldarsi stringendosi sulle spalle la sua mantella scarlatta. La neve però continuava a scendere e già le arrivava fino al calcagno, minacciando di superare lo stivale in pelle di alce e bagnare le calde calze verdi e arancioni: se non avesse trovato un riparo in fretta, non avrebbe di certo superato la nottata! Almeno la dolce luna le indicava il cammino, illuminando il soffice pavimento bianco su cui lei poteva così posare al sicuro i piedi, almeno quando i sinistri e scheletrici pilastri neri non la oscuravano. Infreddolita, con gli occhi arrossati e il naso sempre gocciolante, alla bella Anna dalle trecce ramate quasi non parve vero quando in lontananza vide il rossore del fuoco crepitante dentro a una grande casa nel mezzo della foresta.

Anna corse a bussare entusiasta, con i suoi lunghi respiri intervallati da grandi nubi. Quando vide un’arzilla vecchietta aprirle la porta, Anna non poté non sorridere di lieto sollievo e la ringraziò quando la donna la invitò a restare per la notte, proprio quando ormai i lupi in lontananza stavano iniziando a farsi sentire.

La casa era molto accogliente ma al tempo stesso soffocante, con grandi tappeti e tendaggi pesanti che risparmiavano dal freddo che permeava l’ambiente esterno ma che davano quasi un’idea di claustrofobia. Grande e scura, a illuminare l’ambiente del salotto c’era solo un camino acceso dall’altra parte della stanza nel quale un bel fuocherello crepitava donando il suo calore alla povera Anna che con le sue guance tutte rosse e il pallore della pelle sembrava più morta che viva. In centro al salotto c’erano un tavolino e alcune dure sedie attorno ad esso; su di una sedia si sedette l’anziana signora e sull’altra si sedette la ragazza sotto cortese richiesta dell’ospite.

Quando Anna si fu seduta, l’arzilla vecchina agilmente si rialzò e le tolse gentilmente la mantellina rossa; quindi la appese sull’appendiabiti ricavati da un bel palco di corna posto a fianco della porta, dietro alla ragazza. Soddisfatta, si sedette e sorrise alla ospite.

«Ma dimmi, cosa ci fa una così deliziosa ragazza tutta sola nella foresta?», chiese gentilmente la vecchia.

Anna scosse la testa ritraendosi contro lo schienale della sedia, si portò le mani a coprirsi il viso e pianse.

«Su, non piangere cara. Se non te la senti, ne parleremo più tardi…»

«No, tranquilla, sto bene. È che… Tre giorni fa era penetrato nella foresta il mio promesso sposo per cercare legna da ardere, ma non è più tornato. Sa, ho questa sensazione: penso gli sia capitato qualcosa!»

L’anziana signora le si avvicinò e strinse le proprie grinzose mani attorno a quelle morbide e giovani di Anna, sussurrandole «Tranquilla, sono sicura che il tuo promesso sposo ha solo avuto un contrattempo. Facciamo così, rimani qui almeno per cena in attesa che la nevicata finisca e poi potrai decidere se restare per la notte o tornare a casa tua. So esattamente in che direzione è Letitia, non manca tanto!»; quindi, la vecchia si alzò e si diresse in una sala attigua al salotto, finora invisibile a causa della porta chiusa nella penombra della casa e vi stette per lunghi minuti. Anna sbatté le palpebre pesanti: come aveva fatto a non notarla? Era pure delimitata da due grandi vasi, dai quali usciva una qualche fragranza odorosa molto forte; lavanda forse. Un buon profumo che rasserenava la situazione. Quando tornò dalla giovane, la vecchia sorrideva con un gran sorriso reso minaccioso dalla luce del fuoco, luce che accentuava ogni singola ruga e il lungo naso adunco. «Bene, ho acceso il fuoco, tra poco metterò il pentolone sul fuoco per la cena. Resti per cena, presumo: la neve scende ancora. Nel frattempo, vuoi che ti racconti una fiaba?»

Anna alla domanda della donna si sorprese, ma pensando di non avere nient’altro di meglio da fare acconsentì. Quindi cominciò a giocherellare con le trecce mentre ascoltava la narratrice.

«Tanto tempo fa, in una casupola di contadini viveva il piccolo Nanni con i suoi fratelli e sorelle e i genitori. Nanni era un discolo, un bambino capriccioso e viziato che non ascoltava mai nessuno, combinava solo marachelle e non passava un giorno che non li facesse dannare. Un giorno la mamma era così disperata che invocò l’Uomo Nero, un oscuro figuro nero dalla cima dei capelli fino alle dita dei piedi; perfino i bulbi oculari e i denti e la lingua erano tutti neri. Lo presentò al figlio e gli disse che se non si fosse comportato bene almeno fino a Natale, l’Uomo Nero se lo sarebbe preso e portato via per sempre; Nanni pianse per molte ore quando quel terribile figuro lo guardò leccandosi le labbra perché una sola cosa non era nera dell’Uomo Nero: il sangue fresco che gli colava dalla bocca! Così Nanni fece il bravo bambino e ubbidì ai genitori per molti mesi, ma ai primi fiocchi di neve le cattive abitudini tornarono a governarlo. Non voleva più aiutare la mamma a pulire la casa o il babbo con le mucche; voleva solo giocare con le sorelline e i fratellini, molte volte rompendo i vasi e liberando le galline dal pollaio. Fu due giorni prima di Natale, nella notte, che l’Uomo Nero mantenne la sua promessa: furtivo entrò nella cameretta del bambino, lo chiuse in un grande sacco e se lo portò dentro al proprio castello nel cuore della foresta più fitta e spaventosa. Lì con due enormi aghi gli cavò gli occhi, con una lunga pinza gli strappò la lingua e con un tagliente coltello da macello gli tagliò via dal corpo tutta la carne; tutto ciò accadde mentre Nanni era ancora vivo, almeno all’inizio ovviamente. Così, poi, l’Uomo Nero poté banchettare con le carni del discolo la sera di Natale e poté addobbare il proprio Albero natalizio con il teschio e le ossicine, mentre la calma e l’amore regnava nella famiglia del discolo Nanni, che per magia lo aveva dimenticato. Fine.»

Mentre l’anziana donna concluso il racconto era scoppiata in una sonora risata, la giovane Anna la guardò mortificata; sapeva benissimo che le fiabe avevano una morale e servivano a insegnare ai bambini di comportarsi bene, ma quella era terribile! Quindi per cortesia sorrise brevemente all’anziana ospite e per non pensarci si alzò e si avvicinò al fuoco, per guardarlo crepitare e riscaldarsi bene.

«Senti…», le fece la vecchia mentre si alzava e si dirigeva in cucina, «Ora il fuoco sarà pronto, ci metto sopra il pentolone per far bollire l’acqua. Perché quando torno non mi canti una bella canzone natalizia? Ormai mancano pochi giorni a Natale e visto che nevica ancora potresti allietarci gli spiriti. Che ne dici?»

Anna non ebbe il tempo di rispondere, perché la sua ospite era già sparita dietro alla porta della cucina prontamente richiusa. Invece, curiosò sul ripiano sopra al camino e notò una serie di piccoli oggettini di vario valore: qualche ossicino levigato, uno o due anelli, un coltello da caccia e alcuni borselli in cuoio. Ne stava per aprire uno quando la donna tornò e le chiese di cantare; lei allora si sistemò il vestito di lana verde e scelse una bella canzone che parlava di due innamorati separati:

«Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

Natale è alle porte, i regali sono fatti.

Natale è alle porte, le vivande sono pronte.

Manchi solo tu, manchi solo tu,

Dove sei? Perché non qui con me?

Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

La neve scende già, Natale si farà

Ma che dico mai, senza di te non lo è.

Manchi solo tu, manchi solo tu.

Dove sei? Perché non qui con me!

Dove vai, dove vai?

Neanche tu ciò lo sai

Dove vai, dove vai,

io ti aspetterò qui per sempre!

Io ti manco sì lo so, ma non sei qui però!

Tu mi manchi questo sì, ma perché non sei qui!

Un Natale, senza di te, io ti penso,

Arriva presto per me!

Natale è alle porte, i regali sono fatti.

Natale è alle porte, le vivande sono pronte.

Manchi solo tu, manchi solo tu:

Natale per me sei solo tu!»

Anna aveva cantato dolcemente, con una voce celestiale, perché pensava al suo Alfredo smarrito da giorni nelle foreste e di cui non aveva più sentito notizie. Quando l’anziana donna proruppe in un plauso per l’esibizione, la ragazza prese le balze che contornavano il lembo con il quale il vestito verde finiva e si protrasse in un inchino soddisfatto ma malinconico: le si era nuovamente dipinto il sorriso sul bel volto, anche se gli occhi erano tornati lucidi. Quindi tornò a sedersi e respirò lentamente, per quietarsi.

«Hai una voce stupenda, devi essere molto dolce!», le fece la vecchia offrendole una tazza di tè, che si era portata dalla cucina.

Anna arrossì, bevendo a piccoli sorsi la calda bevanda. «Dovrebbe sentire mia sorella, lei canta nel coro di Letitia. Sembra un angelo! Quindi… Manca molto alla cena? Inizio ad avere un leggero appetito.»

L’anziana sorrise e ribatté che mancava pochissimo, ma che nel frattempo le serviva una mano per portare cinque casse molto pesanti dalla cantina al salotto; «La cantina si trova dopo una scala dalla mia camera da letto. Lo so, chi ha progettato questa casa non doveva essere un gran architetto!», aggiunse ridendo. Anna accettò timidamente e le due scesero a prenderle; ci misero un po’, soprattutto perché le cinque casse erano effettivamente molto pesanti perfino per Anna, una fanciulla nel fiore degli anni. Ma riuscirono a portarle in salotto, dove le voleva la vecchia.

Anna dunque soddisfatta del lavoro si sedette, evidentemente affaticata mentre l’arzilla vecchietta sorrideva sempre più arzilla.

«Wow!», mormorò Anna sentendosi la fronte come per capire se avesse la febbre, «Sono proprio stanca… Mi sta venendo una stanchezza, un sonno, incredibile. Devono essere le casse. Lei, lei non è stanca signora?»

L’anziana donna le si avvicinò e si sedette sulla sedia accanto a quella della ragazza. La stava osservando.

Anna non capiva, quindi si ripeté: «Lei non è stanca, signora? Forse ho la febbre, o forse sono solo stanca, tutto questo calore dopo il gelo della foresta. No?»

La donna ora aveva uno sguardo mortificato, rabbioso, severo. Lentamente si alzò incurvandosi minacciosa verso Anna e le tirò uno schiaffo in pieno volto: «Piccola ingrata. Ti ho salvata, ti ho aperto la porta di casa mia, ti ho riscaldata e perfino intrattenuta. E tu non mi hai nemmeno mai chiesto come mi chiamassi. Una piccola serpe, come tutti gli altri. Una maiala, una scrofa. E da scrofa sarai trattata: bollita nel mio pentolone!»

Anna, che all’inizio non capiva, dal terrore raccolse tutte le forze e spinse via la donna facendola sbattere contro il tavolino. Prontamente si avventò verso la porta principale della casa dalla quale era entrata ma la scoprì chiusa a chiave (quando era stata chiusa?) e vedendo minacciosa la sconosciuta che le si avvicinava, barcollando si diresse verso la cucina. Sempre più stanca e tremante.

Non lo avesse mai fatto.

Quella cucina era il luogo degli orrori della casa! Appese alle pareti su ganci da macellaio stavano gambe umane secche e rigide, sulle mensole lungo il muro a destra si trovavano numerosi strumenti di tortura e cucina intrisi di sangue essiccato, le tendine delle finestre erano in pelle umana mentre sul tavolo c’era un cadavere con le interiora esposte e i polmoni rimossi e il viso scorticato! «Alfredo, no!», urlò Anna riconoscendo i capelli corvini e ricci e la pelle olivastra del proprio promesso sposo. Isterica, si voltò alla propria sinistra e indietreggiò urlando: l’ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu l’enorme calderone al centro della sala nel quale l’acqua ribolliva minacciando di bagnare l’immenso falò ai piedi di esso; la strega la raggiunse e le sussurrò «Fossi in te morrei ora nel sonno, dicono non sia piacevole essere bolliti vivi!» per poi scoppiare a ridere crudelmente.

Così, a Letitia la giornata di Natale non fu segnata dalle risa gioiose dei bambini che pattinavano sul lago ghiacciato o dai deliziosi profumi uscenti dai salotti addobbati a festa per il cenone in famiglia. No, altre due persone erano scomparse nel fitto bosco e un velo di terrore e malfidenza era calato sulla cittadina. Solo nel bosco innevato sinistre risate risuonavano, mentre un’arzilla vecchina si preparava il proprio Presepe personale, unico nel suo genere: una moltitudine di bambole, bambolotti e bamboline a cui erano stati cuciti i visi strappati ai cadaveri degli sciagurati che erano andati a farle visita; e quell’anno finalmente l’arzilla vecchina aveva pure trovato la Maria perfetta!

Buon Natale, amici miei, state solo attenti alle foreste e alle vecchine ospitali o loro staranno attente a voi! Buon Natale e felice anno nuovo!

Tempo di pace

In un paesino di montagna, Pelaghe, vicino a Rizzios, nel Cadore, un giovane uomo osserva il proprio telefono cellulare. Sono ore che è impegnato a disperarsi, a chiedersi come mai nessuno gli scriva, come mai nessuno pensi a lui, come mai nessuno si ricordi di lui. È da minuti interi fermo, sul letto, dritto appoggiato allo schienale, teso e gonfio di lacrime; non piange solo perché è abituato. Con una mano tiene lo smartphone, nell’altra sfoglia ossessivamente il proprio diario. Un diario scritto a mano, dove riporre la propria desolazione e il proprio bisogno di compagnia, una compagnia che non ha e probabilmente non troverà in un prossimo futuro. Posa il cellulare sul letto, ai piedi, e prende con entrambe le mani quelle pagine ricolme di dolore e solitudine; una lacrima finalmente gli scende.

Fattosi coraggio, butta per terra il diario e afferra il telefono, lo accende e guarda nei suoi contatti: vuole telefonare a qualcuno! Quindi inspira, sospira e gli viene il singhiozzo. Tutto sconquassato da questi singhiozzi violenti e rumorosi, scorre i nomi delle persone che conosce e finalmente sceglie Luca, il suo unico amico fino a qualche tempo prima; prima che smettesse di messaggiargli. Sta fermo qualche secondo, nel frattempo una mosca inizia a ronzargli intorno, solo i singhiozzi testimoniano che egli sia una persona viva, in grado di comunicare. Il telefono squilla, i secondi passano, la telefonata viene respinta, il cellulare torna alla schermata principale. Il dolore gli spegne ogni speranza, perfino il singhiozzo.

Improvvisamente, dopo essere rimasto fermo con la lacrima splendente che gli scivolava addosso, sulla guancia scavata, suona l’allarme del telefono: sono le sedici in punto, si deve affrettare per non perdere l’unico autobus della zona per recarsi ad una seduta di psicoterapia. A lui, non è mai piaciuta la psicologa, lo infastidisce, lo mette a disagio parlare dei propri problemi, lo ha scritto ripetutamente perfino nel diario, ma i suoi genitori lo obbligano; quindi lui ci va.

Il percorso dalla palazzina in cui abita alla fermata è tranquillo, troppo tranquillo. Sente solo i propri passi, le popolazioni di conifere della zona lo circondano, non si vede una casa a vista d’occhio. Prima di trovare un’altra casa, un burrone si presenta nella sua maestosità: decine di metri di salvezza per cuori straziati come il suo. Lui molte volte ci ha pensato, di buttarsi. Mai veramente presa sul serio come soluzione, ma ci ha pensato: infatti, come potrebbe altrimenti uno stupido in sovrappeso come lui trovare la pace dei sensi? Se lo ripete sempre, borbottando tra sé e sé, si trova a ripeterlo anche quando arriva alla fermata dell’autobus dove trova Irene.

Irene siede sulla panchina verde, è bella come un fiore di Narciso, splendente come un torrente colpito dal sole, solare come una gemma sul punto di sbocciare. Siede sulla stessa panchina su cui si deve sedere il povero ragazzo, ma, impacciato, non sa cosa deve fare, non sa se restare in piedi e fare in modo di non compromettere quella visione con la propria orrida figura, non sa se sedere e sudare per stare accanto a una ragazza tanto, semplicemente, donna; lei è donna, una donna bella e splendente e solare, lui invece non si considera nemmeno un uomo.

Irene aspetta come lui, deve prendere un autobus come lui, per andare in un villaggio di montagna come lui, probabilmente aspetterà molto tempo prima di riuscire a ottenere il suo scopo proprio come lui, ma a differenza di lui non sente il bisogno di sentirsi accettata e non teme il confronto: come lo ha visto, gli ha chiesto se volesse sedersi accanto a lei «C’è posto, sai? Che fai in piedi tutto solo?». Ma lui invece non se la sente, suda e ha pure un leggero tic alla mano, che si chiude e apre con scatti irregolari.

Alla fine, però si siede.

Irene emana un profumo di rose fresche, quelle fresche ancora brillanti di rugiada, grandi rubini rossi impreziositi dai piccoli diamanti incastonati su di essi. Ogni tanto Irene guarda il proprio Smartphone, ogni tanto sorride alla natura, gli uccelli che sfrecciano sopra agli alberi, il vento sulle fronde che si porta dietro gli aghetti più marroni, gli animaletti indistinguibili che si spostano sul sottobosco e provocano un simpatico crepitio di foglie secche. Irene non sa che lui la sta fissando con la visione periferica dell’occhio, Irene non sa che lui sta sudando per pensare a cosa dirle e Irene non sa che il cuore di lui sta accelerando sperando che lei gli rivolga un sorriso. Irene sa solo di aspettare l’autobus per ritrovare a Calalzo una delle cose più banali di questo mondo ma che al ragazzo manca: gli amici.

«Ciao, sono… Sono…»

Irene, sentiti questi balbettii, si gira verso quello strano sconosciuto. Lo squadra velocemente, begli occhi scuri e profondi, mascella forte, e si chiede come mai stia balbettando; sorridendo, e toccandogli gentilmente una mano, glielo chiede esplicitamente. Lui non risponde, è troppo nervoso, vede grigio e la testa gli gira.

Deve appoggiarsi alla parete di vetro del loculo in cui è posta la panchina per aspettare i mezzi pubblici. Ma quando rinviene, non solo Irene è sparita, ma in lontananza l’autobus sta andando verso le montagne, verso il tunnel che collega Pelaghe a Rizzios. Finalmente piange.

«Veronica, pronto? Sì, sono io. Mi dispiace, ma non ho potuto prendere l’autobus e quindi non posso venire… Sì, lo so. Sto bene, sì sto bene. Possiamo fare la seduta venerdì prossimo? Sì… Certo, ci sarò. Arrivederci.»

Stanco e sfinito, reduce da un episodio per lui disastroso e umiliante, torna a casa. Non vede nemmeno il burrone presso il quale è solito fermarsi a disperarsi, non cerca nemmeno di riflettere sull’accaduto: sa cosa ha sbagliato, una volta a casa lo scrive sul diario, lo evidenzia sul diario, lo trascrive su un foglio e se lo appende alla parete di fronte al letto della propria camera. Un episodio tragico, un episodio, che lo ha mandato in crisi.

Tre giorni dopo, ad aprirgli la porta c’è Veronica, una donna di mezza età dal sorriso gioviale e dalle maniere rassicuranti. Con un sorriso largo e un gesto teatrale, spalanca l’ingresso al proprio studio e lo invita a sedersi.

«Buongiorno, carissimo! Come stai oggi?»

Il ragazzo, leggermente rassicurato dalle attenzioni ricevute, accenna un sorriso anche se i suoi occhi testimoniano l’enorme insicurezza che lo contraddistingue. «Bene, grazie. Mai stato… Meglio.» Lentamente, il giovane uomo segue la donna e si siede su una grande poltrona verde, posta a pochi centimetri dalla scrivania dietro alla quale prende posto su un’altra spaziosa poltrona la psicologa Veronica.

«Allora, carissimo, come hai passato questo mese?» Lo sta guardando dritto negli occhi; serena ma pur sempre diretta nelle parole e nelle azioni.

«Sì, certo. Bene, ho studiato molto sai? Ho anche preso dei sei, finalmente… Posso avere una caramella?»

«Su, non dimenarti e cerca di stare fermo. La caramella te la do se collabori, non puoi svicolare la tua attenzione non appena trovi qualcosa che ti mette in difficoltà! Come mai non sei venuto, martedì?»

Il ragazzo suda freddo: non sa se rivelare l’accaduto, la sua situazione in tutta la solitudine che la caratterizza, o tacere e inventare una scusa al momento; propende per la seconda, ma la giornata di martedì era stata troppo sfiancante, deve sfogarsi e lo fa.

«No nulla è che… Mi sento, mi sento solo. Terribilmente solo. Sento di aver perso i legami con le persone che mi circondano. Nessuno mi vuole. Nessuno mi cerca. Passo ore al computer ma non ho notifiche né su Facebook né su Instagram né su Twitter! Su Telegram e Whatsapp non arrivano messaggi, i soli che mi arrivano sono dei miei genitori per ricordarmi di stendere la biancheria, tirare dentro il bidone dell’umido e preparare la tavola! È… È come se vivessi in una grande bolla e non riuscissi a farla scoppiare! Io mi sento morire dentro, non voglio questa vita ma è la vita che mi sta dando questo! E… Posso avere una caramella?»

Veronica lo osserva attentamente, mentre chiude ripetutamente le dita della mano come se provasse a strangolare il dolore che lo strozza. Lei resta immobile, con i gomiti sul tavolo e le mani congiunte davanti agli occhi; è lui che si muove, finalmente, è lui che urla il suo disagio. Allora lei acconsente a fargli prendere una caramella dal vasetto di porcellana sul lato destro della superficie lignea.

«E perché non chiami mai i tuoi amici?», chiede allora con prudenza.

«Ma quali amici? Nessuno mi cerca, nessuno mi vuole! Prima ho chiamato Luca e lui… E lui… E lui ha riattaccato! Mi ha spento il telefono in faccia! Io… Non ce la faccio più. So che è tutta colpa di questo corpo, grasso e deforme. I miei non vogliono iscrivermi in palestra, so che se ci andassi e diventassi figo, tutto si risolverebbe! Sì, è questo il problema: la gente vuole stare con altra gente bella e sicura di sé, non con quelli come me.»

«E perché allora non ti fai nuovi amici? Cosa hai paura quando devi parlare con qualcuno che non conosci? Che ti giudichi? Che ti rifiuti?»

Il ragazzo sospira e si affloscia sulla sedia: «Che mi rifiutino e si prendano gioco di me.»

Finita la seduta, arrivato finalmente alla fermata tra Rizzios e Pelaghe, scende dall’autobus. Sorride, dalla psicologa si è finalmente aperto, le ha parlato come mai aveva fatto prima, le ha esposto le proprie insicurezze, come passa ore allo specchio a sollevare la pancia gonfia e disgustandosi di essa, come non parli mai con nessuno che non sia della propria famiglia. Ora, per le prossime tre settimane ha un compito: parlare con la gente che incontra per strada, al panificio, a scuola, in piscina.

Così, inizia a uscire, cercare nuove conoscenze, trascinarsi a scoprire nuovi posti. Si sente sempre stupido, brutto, grasso, rivoltante. Ma vede anche qualcos’altro oltre ai propri disastri: infatti, ormai non si ferma più a osservare il burrone vicino a casa, ma solo i tramonti delle sere che torna dal nuoto. Si sente meglio, meno pesante.

E quando, un giorno, alla stessa fermata del bus di qualche settimana prima, incontra di nuovo Irene, sempre sorridente mentre aspetta il proprio autobus, lui la saluta e prima che lei possa dire o fare qualsiasi cosa, lui forzatamente sorride timido e arrossato: «Ciao… Come, come ti chiami? Io sono… Io sono Leonardo…»

Solitudine

Nessuno lo capiva, lui stava sempre da solo. Sempre solo perché nessuno si sforzava di fermarsi a osservarlo. Tutti lo lasciavano solo. Pochi secondi di contemplazione, una risatina, certe volte un commento più o meno derisorio. Tutti lo lasciavano solo.

Passava le giornate chiuso nel grande palazzo buio, illuminato solo da una lampadina in alto, attaccata in alto, al soffitto distante da terra più di dieci metri. La sua sola compagnia era lo specchio opaco che debolmente rifletteva una scura immagine di riflesso. Scura perché la luce era lontana. Neppure lei desiderava stare sola con lui; neppure in compagnia, se per questo. Era solo.

Il suo unico scopo nella vita era posizionare gli arti anteriori nella forma perfetta: niente doveva risultare fuori posto. Una linea perfetta, una superficie immateriale creata dalla magia della perfezione, della mancanza di errore, dall’estremo che una mente potesse concepire in quel pianeta scuro e triste: doveva farcela. Ci provava da anni, da quando era uscito dall’uovo. Solo ma con uno scopo nella vita. Il suo scopo nella vita. La sua ragione di essere. La sua unica compagnia.

Da piccolo tutti lo adoravano, tutti lo coccolavano, tutti gli davano bocconcini e crocchette. Era imperfetto ma felice: chiunque lo adorava mentre cercava di imitare le persone, tutti lo aiutavano nel suo intento, posizionando i suoi buffi e paffuti arti rosa come lui voleva. Era diverso da com’era poi, ma era felice. Ma venne il giorno della solitudine, dell’abbandono: capì come imitare le persone e ciò, capendole nel profondo, lo mutò per sempre. Mutato irrimediabilmente, era perfetto, era strano, era il diverso. La gente lo abbandonò.

Ora stava solo nella sua solitudine a riprovare la posa, sempre la stessa posa, da anni: sapeva che se fosse riuscito a ricreare la realtà che ricercava avrebbe potuto viverla. Sapeva che la gente, quella poca gente che vagabondando finiva in quel vecchio magazzino abbandonato, avrebbe smesso di deriderlo, avrebbe smesso di urlare terrorizzata o abbandonarlo nuovamente. E perché? Perché sarebbe stata rapita dalla perfezione dei due grandi guanti bianchi che magicamente creavano una superficie che non esisteva grazie alla forza della perfezione.

Ma era imperfetto, lui, il movimento, il mondo, tutto era imperfetto. Per questo sapeva che nessuno lo avrebbe mai accettato fino a quando non avesse capito cosa rendeva tanto speciale quella posa. E ciò lo tormentava, gli riempiva le giornate vuote, gli rendeva le nottate piene di insoddisfazione e prive di sonno. Ormai non pensava ad altro: provare a essere perfetto nella sua mimesi. La sua mente era piena di quelle azioni da provare e riprovare fino alla perfezione. Quasi non pensava ad altro. Quasi non si ricordava nemmeno più chi lo coccolava. Quasi, quasi non si ricordava nemmeno più il suo nome! Il suo brutto, patetico nome. E qual era questo nome?

Mr Mime.

Ma non aveva importanza: sapere chi fosse non gli avrebbe ridato qualcuno che lo chiamasse amico.

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Immagine non collegata al racconto ma l’ho scelta tra quelle della galleria di WP per affinità emotive.

Notte Morta

Notte Morta
È la sera del 31 Ottobre. Cammino solo guardando nell’oscurità i bambini che, veloci come le enormi libellule della terra, volano tra le strade. Le loro risate risuonano allegre nella notte, odo i loro passi risuonare nel cemento accompagnati dal cigolio degli zuccotti di plastica arancione straboccanti di dolci delizie. Sorridono, ignari dei dolori che governano il mondo, protetti dai loro genitori che tengono al guinzaglio i cani festosi.
Cani, che parola magnifica. Anche io una volta ne avevo uno, un cucciolo dal manto morbido e con baffi enormi del colore della crema. Per lui ero il suo dio, non faceva altro che adorarmi. I suoi occhioni neri come la pece mi scrutavano imploranti quando apparecchiavo la mia tavola ricca di carne, in attesa di un regalo; in quei momenti era particolarmente affettuoso. Uggiolava, perfino. E ora non c’è più, il candelabro spettrale se lo è portato via; l’ultimo ricordo che ho di lui è un’oscura luce. Il mio Dylan non c’è più, anche se ultimamente ho visto spesso un altro essere simile sebbene alquanto diverso.
Lo chiamano Absol, colui che è portatore di catastrofi, dicono. Mi ha fatto visita due volte: la prima al funerale di mia madre, pace all’anima sua, e l’altra a casa mia, leccandomi sinistro la mano pendente fuori dal lenzuolo mentre dormivo. Entrambe le volte sono riuscito a scorgere solo un bagliore chiaro nell’oscurità. Entrambe le volte mi è sembrato che i suoi stanchi e solitari occhi vuoti scrutassero la mia anima, cercando di comunicare un messaggio che evidentemente non ho compreso.
Le risate risuonano nelle strade lugubri gioviali, in contrasto con il mio animo. Dylan mi ha lasciato e non tornerà più e non riesco ad accettarlo. Mi sembra ieri che mi toccava con il suo tartufo la gamba e si aspettava le carezze, fiducioso, mi ricordo le serate passate da solo ad ascoltare la musica mentre studiavo, con il mio Dylannone a fissarmi devoto. Cucciolo. Il candelabro me lo ha strappato lasciando a me solo le sue carni, vuote. Lo ha rapito aiutato dalla solitudine, in giardino, dove sciagurato lo ho lasciato stanco. Non so come è morto, forse era troppo buono e il cuore non ha retto, forse il freddo con tutto il pelo che ha perso durante le cure. Il mio animo è corrotto da questo dubbio, non trovo riposo. Ma ora tra poco potrò chiederlo al lui, il mio cucciolone: la luna non è più chiara e bianca, ma emana una luce viola e debole come quella di una candela.Aspettami, mio Dylan, tra poco potrò di nuovo accarezzarti.