Challenge di Pasqua: L’Uovo di Pasqua scomparso

Uovo di Pasqua scomparso
Bambino dà fuoco alla villa dei genitori per la rabbia

Roma 20 Aprile 2003. Un incendio doloso ha devastato Villa Grande, una delle residenze della ricca famiglia Agrippa. A compiere il gesto è stato il rampollo della famiglia, Albertino, studente dai voti altissimi e dal comportamento irreprensibile presso il collegio Santa Peppina.
Dalle recenti testimonianze che siamo riusciti a raccogliere, sembra che il bambino fosse finalmente tornato a casa dall’esilio scolastico per le vacanze pasquali e, il giorno di Pasqua, quando aprì la credenza scoprì che il tanto agognato Uovo di cioccolato ripieno di crema al pistacchio e noci moscate era scomparso! Inutile dire che tutta la frustrazione e la rabbia accumulate durante le settimane precedenti scoppiarono in quel momento.

«No comment, per favore. Lasciateci in pace. È stata una disgrazia del tutto accidentale, andate via!»
Sono queste le parole di Aliberto Agrippa, mentre si apprestava ad andare in ospedale per visitare sua moglie Adalgisa e il figlio Albertino, entrambi ricoverati per problemi polmonari.

Tuttavia, qualche ora fa, quando finalmente la famiglia uscì dalla clinica per dirigersi a Villa Larga, nelle campagne dei Monti Tiburtini, il signor Agrippa ci concesse una dichiarazione:
«Stiamo tutti bene, ci godremo il giorno di Pasqua e domani vedremo il resto della nostra famiglia. Mia moglie e il mio primogenito stanno bene, è stato un falso allarme. Pare sia stata una fuga di gas, niente di cui valga la pena parlare. Buona giornata.»

E così tutto si è concluso per il meglio per la famiglia Agrippa, un po’ meno per Villa Grande, completamente divorata dalle fiamme. Dulcis in fundo, sembra che l’Uovo di Pasqua sottratto ad Albertino Agrippa sia stato ritrovato ad attenderlo in Villa Larga. Un lieto fine per tutti!

Marcello Analfi sorrise e ripiegò il giornale, lo depose con cura nella cassettina di acero. Era un giornale vecchio, risalente a vent’anni prima. Ogni anno lo tirava fuori dalla scatola dei ricordi della vecchia terra natia e si tuffava in quelle memorie impresse nella carta a caratteri neri. Cambiare continente era stato un passo importante, si era scelto un bell’appartamentino su due piani, vista Central Park, un luminoso attico. Il piano superiore era un attico, quello inferiore invece somigliava più a una reggia. Piccola ma sempre una reggia.

Soddisfatto dal tuffo e ancora bagnato di quel fumo carico di rabbia, di cui aveva appena letto, si alzò dalla poltrona e si diresse in sala da pranzo: erano le sette del mattino di Pasqua, doveva controllare che il suo Uovo pasquale fosse al suo posto!

Con passo sicuro e lento, mentre ammirava la sua collezione di paesaggi alpini posta ai lati dell’ampio soggiorno, finalmente uscì dalla stanza e si diresse verso la sala da pranzo, al tavolo di mogano nero già apparecchiato a festa. Quella punta di nero in mezzo al muro di cristallo che dava sul parco, la moquette bianca e le pareti celesti. Al fianco del tavolo, sulla parete che dava alla cucina, c’era una credenza napoletana: bianca con inserti d’oro, era bassa e larga a due ante. Chinandosi leggermente, Marcello aprì l’anta sinistra e… e la richiuse, per riaprirla di nuovo. Quindi ci infilò la testa dentro, si alzò di scattò e imprecò non avendola tirata fuori in tempo dal mobile.

L’Uovo di Pasqua era sparito!

Con il respiro diventato improvvisamente frenetico, Marcello si massaggiò la testa nel punto indolenzito e si girò a squadrare la stanza. Niente, l’Uovo non era né al suo posto né in altri punti della sala da pranzo! Dove poteva essere? Là si potevano osservare solo i posti a tavola imbanditi, i Gueridon ricolmi di pietanze e le decorazioni.

Non poteva essere lontano, Marcello ne era certo, il tic all’occhio stava ricomparendo, con immagini di fiamme voraci, il respiro non accennava a calmarsi e la febbre lo faceva tremare senza controllo. Doveva trovare l’Uovo!

Quasi correndo, aprì di corsa la porta della cucina e vi ci si catapultò negli sguardi attoniti delle due cuoche e della cameriera intente a continuare i preparativi delle ultime portate. Sudato, con la cravatta che minacciava di diventare un cappio, Marcello deglutì e osservò brevemente la stanza. No, non c’era. Chiese conferma anche alle dipendenti, ma nessuno lo aveva visto! Dove poteva essere? Nel ripostiglio della cucina? No, lo avrebbero notato. Frenetico, Marcello scappò dalla cucina, attraversò la sala da pranzo e si diresse verso il corridoio che collegava quasi tutte le stanze del piano, verso la sala da biliardo. Niente, pure là. E nemmeno nei tre armadi della hall!

Mancava una sola cosa da fare a Marcello, e non era appiccare un incendio. Aveva promesso a mamma di non farlo mai più! Doveva controllare l’attico!

Il piano superiore era molto elegante, contava solo quattro stanze di cui due erano camere da letto ma aveva una terrazza panoramica spettacolare accessibile da entrambe le camere. E come se ciò non fosse abbastanza, il soffitto della camera padronale era di puro cristallo semitrasparente, con un telo elettrico che fungeva da soffitto a richiesta del telecomando interno; ottimo per vedere le stelle, abbastanza scuro da coprire parzialmente la luce del sole al mattino. Nello studio, l’Uovo di Pasqua non c’era. In bagno, nemmeno. Camera degli ospiti neanche. Restava solo la camera padronale, quella che lui ed Eva avevano scelto e arredato insieme. Anch’essa sulle sfumature del bianco. E al momento isolata da una porta vetrata serrata.

Con il cuore in mano, Marcello lentamente abbassò la maniglia e spinse il pannello in legno d’acero della porta. Aveva gli occhi secchi, un gran mal di testa minacciava di rovinargli la giornata. A nulla era servito partire per l’America a rifarsi una nuova vita, a nulla era servito cambiare nome e assumere il cognome della madre. Anche quell’anno, il suo Uovo di Pasqua ripieno di crema al pistacchio e noci moscate era scomparso. Ma non aveva senso arrabbiarsi. Avvilito e improvvisamente stanco, ancora con la mano sulla maniglia della porta, Marcello, o Albertino che dir si voglia, tornò in corridoio. Non aveva guardato nemmeno in stanza, ormai conosceva la risposta.

Triste, si girò per andare verso la poltrona ad aspettare che Eva si svegliasse. 

“Marcello, come here!”

Era Eva a chiamarlo, la sua bella mogliettina latina. Si era svegliata! Marcello sorrise, quella si faceva sempre delle dormite lunghe e rilassanti, altro che le sue nevrosi! Con un sorriso stampato in volto, l’uomo entrò nella loro camera da letto e si pietrificò alla vista di quello che vide: Eva era seduta sul letto, con la schiena appoggiata ai molti cuscini grigi, nuda e l’Uovo in grembo. La leonesca cascata di capelli del colore del cioccolato le ricadeva sulle spalle, gli occhi neri fissi sul viso illuminato di Marcello, ancora sulla porta.

“Marcello. Come here. Hurry up!”

Marcello si tolse la cravatta e andò a conquistare il suo premio pasquale tanto agognato. Buona Pasqua!

Challenge di Febbraio: Le maschere

«Eco qua, queo che gave’ ordina’, bei fioi. Un cafe’ par ti, dotor dea peste, e na ciocoeata calda par sto’ bel Arlechin. Steme ben!»

Maso sedeva agitato mentre osservava il ragazzo con cui si era dato appuntamento quel pomeriggio, un giorno come tanti per loro almeno all’apparenza, ma un giorno speciale nel profondo. Era a disagio mentre osservava le donne ingobbite nei loro foulard vendere rose rosse alle coppiette felici che li circondavano nei tavoli vicini. Era a disagio mentre le fanciulle esaltate dai gesti dei compagni aprivano pacchi piccoli o grandi, manifestazioni dell’animo innamorato. Maso osservava la camicia nera al tavolo al loro fianco che offriva un mazzo di ortensie alla sua bella, in un sorriso orgoglioso. Maso osservava tutto, in silenzio, dal volo dei piccioni sulla piazza alla Cattedrale che si stagliava sul mare, perfino il verso dei gabbiani e il vento impetuoso dalla laguna erano rifugi sicuri. Maso non osava guardare Gùsto in volto, ma Gùsto non aveva occhi che per Maso.

Gùsto sedeva eretto, attento a mostrare in tutta la loro maestosità quelle due spalle larghe che tanto si era guadagnato con il suo lavoro di gondoliere. Il corpo era completamente piastrellato di arcobaleni, il volto semicoperto da una maschera nera e in testa un tricorno bianco. Ma era là, con lui, in quel giorno tanto infelice per loro. Lentamente gustava il liquido caldo e denso, tingeva i baffi biondi di bruno, gli occhi neri non si spostavano di un centimetro dalla maschera dorata e adunca del suo conviviale.

Maso gli chiese se volesse assaggiare un cioccolatino da Perugia, dal nome Liù. All’assenso dell’Arlecchino, sorrise debolmente e dalle tasche estrasse un piccolo cubetto confezionato in rosa. Lo offrì. Gùsto allungò la mano, e mentre lentamente estraeva il cioccolatino dalle dita dell’offerente, con il pollice accarezzò il polso e mentre si allontanava le dita della mano; finalmente Gùsto scartò il velo di carta rosa e violetta, ne venne fuori un piccolo parallelepipedo dal color marroncino chiaro che gustò sotto lo sguardo incantato del dottore della peste.
Ora fu l’Arlecchino a chiedere se potesse offrire qualcosa: un sorso della cioccolata calda. All’assenso del dottore dorato, il gondoliere allungò lentamente la tazza e la porse. Maso l’accolse nelle due mani e se la portò alle labbra. Sulla tazzina bianca c’era un segno marrone dal quale il liquido aveva incontrato le labbra dell’Arlecchino e fu lì che beve, guardandolo negli occhi neri, e fu sempre da lì che l’Arlecchino bevve.

Restarono seduti ancora qualche momento, fino a quando la cameriera non ricomparve: «Fioi, voe’ calcossa in piu’? Na fritoea coea crema, forse?»

Dissero di no, Maso si alzò e andò dentro al bar per pagare. Gli interni erano spettacolari, i muri e i pavimenti d’Istria erano ricoperti con pregiati tappeti persiani, sui muri erano appesi numerosi specchi e nella grande sala imperavano due magnificenti candelabri verdi e rossi e bianchi di vetro pregiato. Maso si osservò allo specchio: un bel ragazzo, si poteva dire, non alto e nemmeno magro ma con due spettacolari occhi cangianti, occhi ora semicoperti dalla maschera. Era là, ma stava veramente vivendo il momento?

«Quanto era bello Scipione sul suo cavallo bianco! Egli fissava i romani con due occhi aperti e la bocca sorridente, ma con gesto forte e animatore e pareva che dicesse “Dobbiamo vincere ad ogni costo!”. Proprio come fa oggi il nostro amato Duce, quando parla ai nostri valorosi soldati. Però il Duce è più bravo e ancora più bello di Scipione!»

Fu il discorso della bambina dalla radio sul bancone a scuotere il rimuginatore dai propri pensieri: lui era là, stava vivendo quell’ora di magica luce con Gùsto e nulla avrebbe potuto rovinarla! Quindi, staccò gli occhi dallo specchio e posò lo sguardò oltre alla vetrina, oltre alla coppia di anziani impegnati a gustare insieme una mozzarella in carrozza, sull’Arlecchino. Ora che Maso non era più al tavolo con lui, Gùsto si era stravaccato sulla sedia, facendo scendere il sedere quasi oltre la fine di essa e appoggiando il capo sullo schienale. Maso sorrise: era così che lo aveva conosciuto due estati prima, alla spiaggia di Punta Sabbioni. Stravaccato e indolente.

Sorridente, si rivolse al barista. Chiese il conto e pagò.

«Grazie, e tornate presto! Ma scusa, non è un po’ presto per le maschere? Oggi è il giorno degli innamorati, non Carnevale!», commentò il barista con un sorriso sornione.
«Mai. Noi, al contrario di molti, le maschere non possiamo mai toglierle. Arrivederci.» e tornò dal compagno.

Insieme Gùsto e Maso girovagarono un po’ per la piazza, osservando e commentando i turisti con i loro inutili libretti e le mille mappe con cui in teoria avrebbero dovuto essere in grado di attraversare Venezia.

Gùsto, con il suo lavoro, sapeva benissimo che in verità quelle cartine per i turisti ingenui erano inutili. Non che Maso, pur in terra straniera, non lo sapesse: non era raro che uscito a prendere il pane notasse una coppia di turisti dall’accento pesante e dalle vocali larghe, ci si fermasse a dar loro indicazioni per la stazione dei treni e quando tornava con la spesa e un po’ d’ombra in stomaco li trovasse a pochi metri di distanza dalla volta precedente, solo in una nuova calle.

Sorrisero insieme.

Stanchi di San Marco, i due costeggiarono il mare e si diressero verso un ponticello tutto bianco. Di solito era invaso dai turisti, ma in quel momento non c’era nessuno. Quindi salirono al vertice delle scalinate e si appoggiarono al parapetto, anch’esso di pietra bianca. La vista ovviamente era il Ponte dei Sospiri. I turisti lo adoravano, loro invece lo osservavano come monito: se fossero stati tranquilli, non sarebbe successo nulla; o almeno così speravano.

«Buon San Valentino…», bisbigliò Arlecchino.

«A te.», rispose il dottore.

E le mani, per una frazione di secondo, si sfiorarono. Una lacrima scese sotto alla maschera adunca e dorata.

Fu una giornata stancante, il mondo celebrava l’amore e l’unione, ma loro preferivano stare tranquilli. Erano persone normali, non volevano andare contro la legge. Non apertamente almeno. Si limitarono a godere l’uno della compagnia dell’altro. Camminarono avanti e indietro, parlarono molto, del tempo, del Duce, dell’imminente guerra, dei gabbiani, dei turisti. Ma non di se stessi. Quello lo fecero quando entrarono in un portone, salirono strettissime scale e Gùsto fece girare la chiave d’ottone nella serratura del proprio appartamento. Una casa piccola e stretta, eretta in un palazzetto a meno di due metri dal palazzo che gli si stagliava di fronte. Una casa piccola, ma almeno i due poterono togliersi le maschere.

Si abbracciarono.

Quella che avete appena letto è una storiella scritta per la Challenge di Febbraio di Raynor’s Hall, che aveva come temi il Carnevale e le cose proibite. Spero abbiate apprezzato. Ciao!